domenica 30 dicembre 2012

Un parto di cuore


Ho visto le migliori menti della mia generazione perdersi dietro un bancone, murarsi in un amore, drogarsi e fare figli adulti. Tutt’altro che nulla esclama il grande sciamano quando il treno parte, tutt’altro che niente disse a bassa voce con i vetri sipario l’occhio di donna. L’alba negra corse su comete alcoliche, versi mutevoli e simpatiche caldarroste fra gli accaventiquattro e un pulcinella scalzo fatto da stoico bacco virtute. I binari sbuffanti in canne di ghisa e frumento, di acciaio e stucco tossico erano buoni per i ragazzini a secco di cosmo. Lei lo guardò, come non l’aveva fatto mai, come aveva fatto sempre, con il cuore negli occhi di ghiaccio, negli occhi belli suoi belli. Lui si assolse in un pianto lungo un metro, in un addio fumario, dai arrivederci amore ciao, dai che insieme a te non ci sto più. Niente nuvole lassù, un pezzo arancione che quando lo guardò sole giallo fu splendente e vispo. Il nonno giovane adolescente della terra fiorì con la lupa e il licantropo. Fate l’amore, quando il capostazione fischia, ragione nuda, che vuoi che sia un vetro, che vuoi che sia un’isola, fate rosso il corto con passione di tredici suore nuove di fronte al papa, fate di gusto, con dolore fretta di spezie rubate ai mercati persici. L’esercito sfumò, la spesa, i servizi, il dovere avere, il dovere avere le carte, il volere avere la fretta lenta del partire col salire del giorno, la spudorata notte che non finisce, tanto tanto prosegue nella vita colorita, si gioca nel cromatico spazio dei cuori affogati in stanze di lacrime, in schizzi di verde smorto, in pioggia neve sotto il vischio appeso ad una stella, di un bacio ladro malato, di un herpes in un urlo di 12 ore. Gravida soffia, tiro una vocale, il Buongiorno è un morso. Il Buongiorno amici è un parto di cuore.

sabato 22 dicembre 2012

Finestra



C’è un uomo alla finestra. Il suo occhio è un chicco di caffè, lo sguardo è corrucciato, la vista è fissa nel sognante. Metodico col cuore, presta gioie al vetro, pensa al passato, un sospiro e lungo. La moina del mondo è nascosta ma vitrea; è smorta. Furba. Un paesaggio desolato, la dimora viva, celebre, ricca, gioiosa. Il palato fino, giudicante, ambizioso, sazio di viola. Le sue vertebre piegate al sogno, il suo rifiuto scodinzolante al mondo. Il suo gesto di cera, pacato, funebre. Le sue gambe tese, tremanti, destabilizzate. Il suo occhio è un chicco di caffè, il paesaggio lo tiene sveglio. Le mura di avorio lo soffocano, lo irridono, il nano verde lo stringe, soffoca, la milizia lo gioca di olfatto. Emana versi sillabici, nessuna poesia, solo qualche vocale. L’arte dell’eremita, il canone inverso, la scuola di marzapane: qualche ricordo lo sfiora. Il realismo lo pervade e il respiro si affanna, uno sguardo di miscela, la schiuma del vento. Sorte assassina. Morte e pace.

lunedì 10 dicembre 2012

Pittore


Mormora , la gente, mormora. Ride, la gente, ride. Osservo. Un colpo di pennello per intingere sulla strada la pozzanghera in cui affogherò. Un colpo per disegnare la cantina con la mia giovinezza. Un colpo grigio topo per un cielo stanco. Un tocco di carne per le fossette dei sorrisi abbandonati. Un boccale per specchiarmi nei versi dell’alcol. Un sentimento celato fra i deserti della mente. Non vi osservo. Siete un filtro ottico, un ambiente lungo una strada dritta e infinita. Un luogo di transizione, uno specchio. E proseguo, senza specchiarmi. Rispecchiandovi. 


domenica 2 dicembre 2012

Pioggia


Lampo di tuono. Pioggia. Non bagna. Mi muovo. Scende. Il mio corpo fradicio. Mi fermo. Si ferma. Mi muovo. Si muove. Mi fermo. Il tempo è robotico. Mi fermo coperto. Piove. Rischio. Mi fermo scoperto. Sul ramo la foglia è verde. Sul fango la foglia è gialla. Si incontrano. Blu. 

mercoledì 28 novembre 2012

Bifolco sentimentale


I calli sotto la pianta del piede premono fino alle gengive sanguinanti, le scarpe nuove consumate ai bordi e sulle punte, i lacci, lunghi e mai avvolti, singhiozzano in grumi omogenei di fanghiglia, piscio e vomito, strisciano come lumache insozzano il parterre. Leggermente zoppicante, senza cintura di continuo tira su il calzone cascante in contemporanea nevrotico pulisce il naso rattico colante di un raffreddore eterno con le dita ingiallite dal fumo e con le pellicine sanguinanti vicine strumentali di unghie sfracellate dalla tensione. I vestiti maleodoranti, il monociglio occulta, ma non troppo, i brufoli. I denti ingialliti e frastagliati, il dentista nemico, assassino atono. Paranoico e con scarsa cura di sé, si stende sul divano smollato fuori al balcone. Inizia a piovere, vorrebbe piangere, starnutisce e le mani si imbianchiscono. Le vene pulsano. Scalda il cuore al microonde visivo, cuce connettivo l’occhio all’anima con la finestra difronte: due adolescenti innamorati, si baciano stesi sul letto. Lui sopra, sicuro di sé nel suo corpo scolpito, greco, come Lei regina fluttuante dall’ombelico floreale, si amano, compiono l’amore. Splendono nella luce soffusa della stanza che genera ombre immense e delicate sul palazzo difronte, sul suo volto sporco e rugoso, fra i suoi baffi incolti e la cicatrice al collo. Lui ama guardare, non si cura d’altro, pensa all’empatia a distanza, condivide la diffusione del sentimento altrui, ricco e generoso. Si infiltra fra le lenzuola candide rilasciando melma invisibile, le sue budella accarezzano i corpi. Dona le viscere al cuscino. Lascia la sua trasandatezza in frantumi di specchi mai visti, in gettiti di diffusione verso gli altri, nulla per sé se non il bello in testa. La convinzione della purezza, ruba, è un ladro di ombre, specchi e fumo denso. Amate, ma con cura, con paranoia che lui venga e vi strappi tutto, con delicatezza incauta. L’amore è vivo se coincide con la paura. Lui, è un bifolco sentimentale, apatico, ritualistico e profano. Vi ama perché si odia. Poi vi odia perché si ama. Succo gastrico apparente in amico di famiglia, fratello, amante, garzone, prete, medico, malato. Un neonato. Amatevi.

sabato 17 novembre 2012

Lunghi sogni


Era in un armadio scheletroso dal bianco avorio e mille ceneri lapillanti, fra le ansie dei motorini in fuga e i compagni infami, fra i giri di parole e i codici personali mimetici con cui interiorizzava i sogni e amplificava le paure altrui. Scriveva per esaltare l’aurora col cherosene. Alto fra i casti lugli. Rigido nei lunghi sogni. Vigilava insonne sulle macchie stanche di una strada folle, fra i cuscini della notte che sono pali, vetrine e muri d'ospedale. Dissonante, bistrattato dal Sé. Mai un caffè, bastava il singhiozzo provocato per restare sveglio. Sbandava alle nuvole radiografate dal lampo e crollava con le rocce di tuoni vive. Era una stella in declino senza sosta né caduta. Amava gli infissi delle finestre dell'armadio con cui arginava e volava con il resto del creato e non.

lunedì 29 ottobre 2012

Abbandono

Lasciavo parole su
fogli, scontrini,
pezzi di cielo, persone.
Avevo la miseria in tasca
le scarpe in fuga
e la giacca a vento.
Non respiravo bene
palpato dall’arido,
carezzato dal fruscio di 
muri, vetri
ospedali, cartoni.
Una lunga autostrada
ventricolare, un bacio al
barbone, alle colonne
greche urbane.
Respiravo fra le braccia
di casa, fra il ragno saporito e
l’albicocca crepuscolo.
Del timido altro
respiravo quando
lasciavo parole
al vento, a dio
al cuore. Morivo
appannato fra le vesti
di seta, fra il sottile
Incolto. Morivo di noia,
nell’oblio del pianeta
disadatto.

giovedì 11 ottobre 2012

Istruzioni per uso


La soluzione è centellinare le emozioni, spalmarle, stenderle lungo l'arco che compone la tua vita. Altrimenti quei pochi strati si assemblano in un'unica fase e il resto della tua vita è impastato da ricordi idealizzati. Una cosa al giorno, un turbine di tam tam quotidiano, noia e disattenzione, periodi ipotetici e inautentici. Cogli l'istante e scomponilo come un mosaico, prosegui nell'immaginario, non vivere troppo, scrivi. Non essere infantile per lungo tempo, rischi di cercare l'anima nei giocattoli, rischi che i giocattoli diventino persone adulte come te, che ancora non sei ma di fretta giochi a possedere e scartare. Non essere a lungo ragazzo, ma conserva l'occhio nuovo e malinconico con cui hai vissuto e hai provato l'amore. Sii uomo e a lungo, ricorda quando hai smesso di essere ragazzo, ricorda il dolore che ti ha smosso e relegalo ai bordi dell'universo. Di tanto in tanto affacciati oltre il tuo io e le tue piccole ma grandi relazioni sentimentali e sociali, ricorda il dolore quando l'hai provato, affrontato e superato. Cancella le persone che ti hanno ucciso per farti rinascere, vivi nuove vite nei tempi indotti dalla composizione universale, rimuovi i momenti brutti e il singhiozzo della paura dinanzi al futuro, togli, sposta, istruisciti ma non cancellarli. I momenti sono tuoi, il tempo no, vivi quanto ti è concesso. Se vita lunga sarà dosa il respiro, i pasti e i sorrisi. Se vita breve o fulminea che sia, piangi della morte ma prima balla insieme a lei, inaspettata quanto bella, ilare e gaudiosa nei suoi affetti. Balla con il neonato, lo storpio e il malato. Sappi che lei è equa e democratica, balla con tutti senza distinzioni eccessive. Vivi, se è per poco lascia i tuoi saperi come gioielli a chi ti ama, se è per molto costruisci un impero e donalo a chi non parla, a chi vende la tela del mondo sotto le spoglie di un mendicante, al bambino maturo o al giovane senza esperienza. La soluzione è avere un buon libretto con su scritto le istruzioni per l'uso, piegarlo e farlo volare come facevi alle scuole medie durante l'ora di religione, basta avere fede.

mercoledì 3 ottobre 2012

Dialogo da grande


Dopo i due caffè divisi fra loro due, i due come è solito ogni volta si accendono una sigaretta con l'accedino, pare che dopo anni questo resti un atto illecito da trascorrere in intimità amichevole. Accesa.

Ti dicevo che forse ho capito cosa voglio essere da grande.
Cosa?
Uno scrittore.
Cioè, che lavoro vuoi fare?
Scrivere
Sì, ho capito, ma vuoi scrivere libri, vuoi che i tuoi libri siano venduti?
No, voglio scrivere
 Se scrivi libri non scrivi?
No, non voglio scrivere per sopravvivere ma voglio scrivere per vivere.
Allora vuoi scrivere sui giornali?
No, voglio scrivere.
Sì, continuo a dirti che ho capito, ma anche il giornalista scrive.
No, non voglio scrivere perché devo scrivere ma voglio scrivere perché voglio scrivere.
Ok, non ho capito.
Allora, ti replico la risposta, prima alla prima domanda poi alla seconda: non voglio scrivere per fare lo scrittore ma voglio scrivere perché voglio essere scrittore; non voglio scrivere perché devo scrivere ma voglio scrivere perché voglio scrivere.
Mi puoi dire cosa vuoi essere anziché dirmi cosa non vuoi fare?
Non voglio fare lo scrittore ma voglio scrivere perché voglio scrivere e quindi voglio essere uno scrittore
E’ come fai a sopravvivere?
Te l’ho detto che non voglio sopravvivere ma voglio vivere.
E come fai a vivere?
Scrivendo.
E’ questo sarebbe uno scrittore?
No, questo sono io-scrittore.


I due spengono la sigaretta, un colpo di tosse e prendono il passo verso le rispettive stanze con le mani legate dietro la schiena, la coppola sopra la testa e il bastone che accompagna le loro stanche gambe all'ospizio in cui risiedono.



lunedì 24 settembre 2012

Cane randagio



Un cane randagio con gli occhi lucenti, riflessi, naturali. Vaga lasciandosi addomesticare, si lascia comandare per divertimento, per noia, per conoscere. Biagio, chiamatelo così anche se il suo padrone lo chiamò Libero. Piace a tutti perché non è di nessuno, perché puoi lasciarlo quando vuoi ai bordi di una strada senza che i suoi occhi lacrimano. Si commuove con una storia, lui è nobile nella sua pelliccia sfatta e disordinata. E’ un figlio della cooperazione, dello stomaco. Pensa tanto, ronfa molto, mangia poco e beve tutto. Il suo corpo è lontano dalla mente, la sua anima si cristallizza nell’esorcizzazione della morte. E’ sempre in strada, ragiona su “come potrebbe essere se” ma poi scappa, nulla resta se non il suo ricordo. E’ schiavo dei ricordi, si sazia così, con i compagni di viaggio e le serenate silenziose. Ama l’alba, ama chi lo accompagna sulle colline a mirare il sole nascente. Se piove sorride, non si scrolla mai l’acqua da dosso, la fluidità di questa è la sua ambizione. Spende il tempo e lo cura, cosciente che non ha padroni come lui. Ama leggere i libri ingialliti, vivi e morti mille volte, rinasce anch’esso dall’inferno. Ha occasioni con l’amore, perdendole, non le rimpiange mai, al massimo ne cerca altre. E’ Libero e Schiavo, è ricco di materia e povero d’animo, attende i fulmini per ammirare gli scheletri delle nuvole, ascolta i tuoni ad occhi chiusi così che i massi rotolino dalla montagna, un rumore pieno. E’ un cane randagio con gli occhi lucenti, riflessi, naturali. 

venerdì 14 settembre 2012

Lettera a Baffo


E tu baffo mi dici di scriverti, di farlo per piacere, per amore, per passione. E io ti racconto del viaggio, delle 6 del mattino, del vino, delle urla interiori, delle foto improvvisate, delle strade a imbuto, della scelta: destra o sinistra: slitta l'auto e il muso si accosta a un millimetro dalla scelta: retromarcia: vado a destra. Le insegne autostradali, con l'asfalto commossa, si adagiano in terra, sembrano luci, riflettono le luci della mia auto. "Un amaro del capo, se non ce l'hai tira fuori quello più bollente, il peggio". Un lucano e poi via, fra i bracieri luminosi di cicche semispente sulla strada vuota, morta, approssimativa e stanca. Penso a lei, te lo dico, perché è tua sorella, forse è la sorella del mondo. Le comete alcoliche ci hanno condotto qui, fra un cane rabbioso e un me inadatto, lasciamo scorrere i fiumi del liquido a basso costo, lasciamo che la vita ci offra il da farsi: disoccupiamoci nel tempo libero, nel tempo vivo, per quello morto non ci resta che lavorare.

mercoledì 12 settembre 2012

Quando crollarono sembrava un film


Tornando agli occhi blu lucidi del cuore, del pianto greco, dello schiavo magrebino, del mediorientale vittima. La provincia del mondo si culla sulle rive del fiume buio, nella notte stellata, nelle bombe comete lontane per ucciderci ma belle da mirare. La caduta dell'angelo inverso fu uno spettacolo. Quando crollarono sembrava un film, con cineprese amatoriali per una scenografia da Ollivuud. Un diluvio di paura e polvere, di macerie e corpi inermi, ben curati, morti. Ancora un muro nuovo fra le province, fra gli umani, il terrore è ricchezza.  La democrazia è l’illusione della scelta, la schiavitù è libertà, se dovessimo scegliere saremmo imbarazzati, in difficoltà, lasciamoci scegliere illudendo di scegliere. Continuiamo a vedere i parti cesari nelle scatole in cui l’importante è l’offerta. Il nuovo nemico è cattivo, non diverso. La sua cultura è disumana, non diversa. I suoi sovrani sono tiranni, non diversi. Il racconto è funzionale, la narrazione è serva, il tempo è breve ma non se sei scelto, quello  è come l’illusione della scelta, della comprensione, del giusto: è sempre una grande emozione.

sabato 18 agosto 2012

La malattia


Avrebbe desiderato scomparire, sottrarsi al mondo della percezione e dei sentimenti. Teneva gli occhi chiusi per la maggior parte della giornata e quando li aveva aperti piangeva. Soffriva di una malattia che le moltiplicava le emozioni, quelle brutte. Ferita dappertutto a causa del dimenarsi continua e forsennato. Scrisse all'unico che l'avrebbe capita.

Se sogni vuol dire che dormi. Lo disse un saggio con l'elaborazione del pensiero lunga e con la risposta rapida. Gli occhi chiusi, erano chiusi per la polvere, per la fuliggine della brace celeste. Ardeva tutto intorno come un Vietnam interiore nel basso ventre. I sentimenti erano carne in movimento, astri di cemento, fiamme di Cristo. I sentimenti soffrivano con lei, le emozioni scappavano, teneva stretta a sé i tizzoni rimasti, bruciati, passati e idealizzati. Erano brutti, ma erano.

La malattia la cambiò. L'ostacolo divenne un trampolino, non tornò più indietro. Si superò, oltrepassò se stessa e fece amicizia. La natura ammalante si innamorò di lei e la rese forte. Una volta guarita, il muschio sul muro del cortile divenne il suo profumo. Il vento, la pettinò a sua somiglianza. Il sole, la baciò e la fece donna. Era in armonia, il salto nel vuoto fu la cura. Era in riso: il vuoto era un tappeto, con uccelli sostenitori alle estremità, pronti a dare lo slancio. Era madre, la malattia la rese viva e generatrice di vita. Era sana, grazie alla malattia.

lunedì 13 agosto 2012

Il dolore atavico


Da quant'è che soffre l'anima mia?

Sento emergere un dolore atavico, un proseguimento della narrazione umana e della sua esistenza. Sento l'eco di un mostro in una caverna, la spada medioevale nel petto e nella schiena. Provo a baciare una donna, prima di andare al rogo. Dovrei aprire gli occhi con egoismo: ricercare il mio dolore, non quello altrui. Ma così non è. L'emigrante scappa, il brigante lotta. Il partigiano affronta il dolore anche quando è più forte: vuole sentire tutte le fruste sul viso, i tizzoni ardenti sul braccio, i topi danzanti sul corpo,  i fucili di Dio e di Beethoven.

Da quant'è che vivo d'altro?

Da quando ho preso la penna, da quando tasto le fontane di sangue del petto. Da quando ho perso il cuore, o meglio l'ho regalato. Da allora scruto nei vostri occhi, nelle luci degli alberi, nelle pareti naturali, nei buchi d'acqua. Ho bisogno di osservare e percepire l'umanità più costosa, di sudare per fotografare gli istanti altrui di gioia. Oggi, non riesco a vivere, e milioni come me accettano il dolore e la morte anziché l'eros per vivere qualche attimo animale.

Mi chiedi - Come posso aiutarti? -

Raccontami una bella storia o ricordami di quando ti hanno ammazzato.


lunedì 30 luglio 2012

Nuove divinità


Si affacciano in mezzo ai vetri domestici, sono passivi come lo si è dopo un parto. Hanno occhiali spessi, un vestito grigio con cravatta accesa, uno scarpino lucente e un fazzoletto attorno al gomito. Sotto l'abito, hanno tanti proiettili quante disgrazie per la futura umanità. Il creato li imita, roba da mercatino. Le donne li cercano, gli occhiali sono troppo spessi per non vederle. Nascono bimbi, metà di due metà è razionale, l'altra è emotiva. Producono contenitori, producono contenuti: producono esseri. E' un mondo fondato sull'originale spaccato in due. Poco originale. I primi esseri diranno di avere avuto una lite- probabile per una donna- e divideranno il contenitore dell'essere. Un lungo scontro fra le parti, culminerà con la fine del creato. D'altronde. Il creato li imita. Il mercatino per metà è fasullo. L'altra metà: no.

sabato 16 giugno 2012

La spesa


Nello stomaco; ho mille ansie. Prima di fare la spesa penso molto a cosa comperare ma dimentico puntualmente di fare la lista. Quando sono davanti all'immenso scaffale delle scelte, i prodotti mi guardano e io guardo loro, non reggo lo sguardo; ho mille ansie. Chiudo gli occhi e prendo il primo scatolo a casaccio per placarmi, pensare è stato inutile. Torno a casa, c'è poco da cucinare, troppi scatoli da scegliere, non so quale aprire. Li apro tutti e mangio cieco e frenetico; ho mille ansie. Credo di nutrirmi, ripetutamente mastico poco e ingoio di getto, resto a bocca asciutta; ho mille ansie.

martedì 12 giugno 2012

Il Disincanto


Rigido, geometrico, rasato. Il pensiero infantile si presenta così in mezzo a mille parole e ai loro echi imponenti nell'inconscio. Lei lo fulmina con fucili di consonanti, con costole di vocali, con ghigni delusi e occhi accesi.

Statico, impalpabile, muto. Le paralisi mentali, il cuore che pulsa tremendamente regolare, il sudore mancato: non reagisce. E' diplomatico nello sguardo, nel corpo, nell'essere. E' diplomatico col cherosene. Va a folle per risparmiare carburante, le analisi sono nevrosi e i gesti sono atti di dolore.

Oh Dio, dal muto cuore, dal petto spento, dal verginale inconscio libera le ossa di un uomo di provincia. Rilascia le colline agli assetati e le periferie ai proletari. Desta sospetti negli occhi di chi lo ascolta, deresponsabilizza quel che resta del corpo.

Irruento, scontroso e drastico. L'adolescenza a trent'anni lo colpì, chiese alla madre di alzare il volume della televisione per coprire le urla, chiese alla madre di aprire la porta per raccogliere i cumuli di quel che resta di lui.

Grasso, fatto, peloso. Tutt'uno col divano lascia colare il sudore che macchia la sempre eterna canotta bianca, non la cambia mai, da quando si è acceso l'ultima sigaretta. Ora urla contro la televisione per un rigore sbagliato, per un politico bugiardo, per un cantante stonato. Le sue poesie sono articoli e le sue canzoni sono racconti. Il disincanto lo spense da allora si sentirono solo le animalesche vocali in un deserto di consonanti.

martedì 29 maggio 2012

La fermata


Ci fu un ripensamento lungo il percorso. A ritroso, un attimo. Le cinque di un alba, la miseria contorta fra i cestini. Un uomo, la stazione. S'alzava per chiedere qualche spiccio, spicciava storie per qualche spiccio. Meglio che spacciare. Un cane legato al padrone senza guinzaglio. Il cane secondo del padrone due. L'incontro fecondo, scambi di cianfrusaglie. Io di fronte alla scena mi guardavo allo specchio. Il ciuffo e il baffo, non mi riconobbero. Erano mio padre e mio zio con i loro tabacchi gemelli, le loro coperte di carta e i loro materassi duri. Dal collegio erano muti. Qualche urlo in onore della vecchia casa. Io medio fra i due, ho poco lavoro da fare. Ho da attendere. La guerra fredda.

venerdì 18 maggio 2012

Ripercorrere: Questo sconosciuto




Suona la sveglia, è tempo di spostare la lancetta, aumentare il percorso da compiere in ulteriori giri circolari; si rigira nel letto. Sogna del dovrei vivere e del "ho dovuto vivere"; il vissuto moribondo e il vivere assassino; dramma mattutino. Rimanda tutto, le carte da consegnare a qualche delegato statale, gli amici, gli appuntamenti e il tempo. Rimanda gli incontri con se stesso, con lo specchio e la vertigine.
Riempie le sue giornate di impegni che non svolgerà, un modo per tenersi impegnato.

Non sente più gli odori, gli dicono che la città puzza e lui la difende parlando dell’amministrazione e delle persone. Gli dicono che quel palazzo inquina la vista e lui racconta la storia di chi ci abita. Gli raccontano delle morti in guerra e lui esprime i motivi del conflitto, ne prende posizione e giudica.

Non empatia ma cronaca.

Al ristorante non sapeva mai cosa scegliere, a volte si affidava al prezzo, altre al conosciuto: il conosciuto! Amava per abitudine mangiare sempre gli stessi piatti, la stessa quantità di cibo e con le stesse persone. Il suo stomaco quando riceveva qualcosa di nuovo si ingrossava e lui non dormiva la notte per indigestione; pensava e si puniva.

A volte puniva gli altri con cuore, con rabbia, con repulsione dominante, con rifiuto e scambiando sé con gli altri: urgeva uno specchio ma chi poteva offrirglielo senza ferirlo? Ti amo, le disse lei e altre mille; lui rispose sordo agli impulsi, lesse il labiale e ripeté senza cuore, perfido in una malaugurata buonafede.

Non sentiva, non provava, non gustava se stesso, le persone, la vita e il mondo; semplicemente stava con le mille parole e i duemila pensieri a darsi compagnia. Parlava con una donna e pensava è lei quella giusta, chissà come sarebbe viverci, magari sarà bello per questo, magari sarà brutto per questo: immaginava e questo gli bastava. Parlava con un’altra donna e pensava è lei quella giusta, quella di prima era sbagliata per questo: non mi capiva. Ancora una donna e pensava al divertimento, alla leggerezza: guai a dirgli che credeva in una vita insieme. Ri-circolava fra queste e poi creava nuovi circoli: non viveva, immaginava continuamente.

Exit Post: Mai visse come un uomo, sempre fra le coperte, il mangiato certo e mille dubbi d’amore; mai conobbe realmente l’amore, sempre incerto, mai conscio, mai consapevole; mai fu consapevole, sempre in lotta con sé e con mille altri sempre uguali; mai cambiò compagnia, donne, genitori e amici, una casa e un soffitto a schiacciarlo ogni giorno, nella sua immaturità puntò a sopravvivere; mai sopravvisse se non pensando a come avrebbe potuto vivere come un uomo.

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Ripercorrere: Compagna suggestione 
Ripercorrere: La cento e 4



domenica 6 maggio 2012

Ripercorrere: La cento e 4


Nacqui per primo, una volta sola. Poi una lunga schiera di secondi fino all'ultimo, eravamo la prole. Quando nasci non hai tempo per pensare, non puoi nemmeno accenderti una sigaretta. A quattordici anni presi il vizio perché il migliore della scuola fumava.

All'inizio vivevamo in campagna, rincorrevo i cani e venivo bastonato con loro. Poi una volta trasferiti in città arrivò la miseria. Eravamo in troppi, tanti: in campagna sono 20 braccia per lavorare, in città 10 bocche da sfamare. Ero il più bravo della scuola, mamma non mi concedeva altro da fare. Andavo a scuola fino al 26 luglio, poi anch'essa mi abbandonava.

Lavoravo al tabacchi di famiglia, portavamo il cancro ma all'epoca non si sapeva e quindi tutti ci sorridevano. Correvo qua e là, come quand'ero bimbo in campagna, per portare i soldi alla posta, mamma me li metteva nelle mutande: era più sicuro. Una volta portai 10 milioni, correvo come il vento; avevo 6 anni. Non  uscivo a giocare col pallone insieme agli altri bimbi, non andavo al mare con i ragazzi e non andavo al cinema come gli uomini: correvo alle poste.

A vent'anni entrai per la prima volta al cinema, vidi "Lo chiamavano Trinità", oggi guardo i western per addormentarmi, da ragazzo vedevo fino a 3 proiezioni di seguito senza soste. Amavo la matematica, facevo i conti al negozio, ed ero il migliore della scuola; forse l'ho già detto però mamma diceva che dovevo dirlo spesso.

A 21 anni votai per la prima volta, Democrazia Cristiana e quattro preferenze, mi spiegò come funzionava mamma. Mi iscrissi a Medicina a Napoli convinto di essere il più bravo; non fu così.

Successe poi un cosa brutta che non vi racconto.

Divenni poliziotto, tutto quello che mi diceva mamma era restrittivo, repressivo: ero a mio agio. Votai ancora un po' Democrazia Cristiana, girai l'Italia: Siena, Firenze, Torino, Vicenza, Verona, Genova. Ricordo le bravate con la celere, i brigatisti da spiare, le identità mutevoli, i nascondigli, cambiavo auto per non destare sospetti ai fanatici, rischiavo la vita. Le uscite con i colleghi, le auto nel muro, le prime scopate e soprattutto l'alcol. Una nuova famiglia, camerati, non tornavo spesso da mia madre, al massimo a Cologno mi vedevo con uno zio-cugino.

Bevevo praticamente sempre tranne quando lavoravo. Al Nord faceva freddo, tutti bevevano. Al Paese dove tutto è partito, tutti bevevano. Mi resi conto dell'estrema utilità dell'alcol e la necessità di essere discreto.

Lavoravo bene, ero il migliore di tutti.

Essere il migliore di tutti nell'amministrazione pubblica ti fa sentire solo, vieni isolato perché sei visto come lo "stronzo" che fa sgobbare gli altri, sei la causa delle ramanzine del principale. A me piaceva stare solo, i vizi erano compagni e dormire mi faceva sognare.

Quando tornai in città, non lo dissi a mia madre, mi innamorai della prima comunista per strada (solo dopo ho scoperto che era identica a mia madre) per farle un dispetto ed oggi, sebbene non la vedo molto, faccio il bravo figlio sulla carta, ho la cento e 4.



Exit Post: Non dirò ulteriori dettagli perché sono un uomo di poche parole, mi sono descritto come la peggiore persona possibile perché non sono il migliore di nessuno, nemmeno di me stesso. Ho un complesso e lo porto con me, presto lo lascerò ai miei figli e allora sarò libero di prendermi un cane e dare bastonate.


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martedì 1 maggio 2012

Ripercorrere: Compagna Suggestione


Erano anni in cui un'utopia ci formava, forgiava le nostre menti per prepararci all'ora X. Come al solito, noi giovani cresciuti senza una guerra sulle spalle, ma solo alle spalle, l'ora X la pretendevamo, volevamo tutto e subito.

Ero prossima alla laurea in Lingua e letteratura francese, la mia tesi era sul maggio 68, 42 libri di bibliografia tutta in lingua e tante, per il professore troppe, considerazioni personali. Dovetti riscriverla secondo il consueto copia e incolla. Ero stata in Francia come ragazza alla pari, mi chiamavano Louis, sebbene fossi una donna. Bevevo molto caffè, nulla a che vedere con quello dell'Italia meridionale, ma era di tendenza trascorrere ore a dialogare del comunismo e del PCI con troppi rubli per essere bello, erano consociativi e questo era inammissibile.

Una volta vidi la farfalla di Dinard, ma la politica era più importante. Una morale, un'amorale tutta nostra, niente Stato o partito, niente popolismo: Lotta Continua. Lotta Continua, un imperativo, un movimento, un giornale, una sinistra tutta italiana e un po' francese. A Parigi la vita era diversa, gli stimoli intellettuali, culturali e sociali erano infiniti; crebbi a vista d'occhio. Leggevo Proust, Baudelaire, Sartre, Foucault, Rimbaud. Ogni mattina andavo alla Sorbonne e studiavo il diritto allo studio; andavo in fabbrica e partecipavo alle assemblee operaie.

Avevo solo vent'anni quando tornai a Salerno. La campagna e il panificio, questa era la vita dei miei genitori e dei miei zii. La notte facevano il pane, il pomeriggio zappavano. Io studiavo, facevo movimento, gridavo contro i sindacati. Ero antifascista e provavo un odio viscerale verso i partiti di governo; si sa, quegli anni erano così. La resistenza era la rivoluzione dei nostri padri, una rivoluzione interrotta da portare a compimento; il fascismo era ovunque e andava abbattuto.

All'università occupammo diverse aule e i professori seguivano le nostre lezioni. I cortei erano violenti, i fascistini picchiavano ma non restavamo certo a guardare. Durante le manifestazioni capitava che i vecchi bigotti ci chiamavano "puttane", che le vecchie bigotte ci chiamavano "puttane".

Noi lottavamo per loro e contro di loro, lottavamo per noi, per respirare, per crescere.

Alcuni poi, andarono a fare movimento a Roma, li ritrovammo sui giornali, c'era scritto che erano terroristi,  Brigatisti, ma non era vero - anche io dicevo di essere per la Lotta Armata, ma di fatto sognavo di diventare una hostess di volo - poi qualcuno è morto sparato.

Di quegli anni ricorderò le riflessioni alla fine di ogni assemblea sul diario, le letture di Pasolini, i manifesti e la colla, gli striscioni e la rabbia. Erano anni in cui l'utopia ci formava, forgiava le nostre menti per prepararci all'ora X.

Continua il percorso: 
Ripercorrere: La cento e 4
Ripercorrere: Questo sconosciuto

domenica 29 aprile 2012

Ripercorrere

Ripercorrere la strada solcata da un uomo, dal te passato, da chi ti ha generato. Ripercorrere i luoghi e gli avvenimenti convulsamente, toccare quanto la mente inconsciamente rimuove, percepire il diritto all'esistenza, il progresso.

Ripercorrere il progressivo evolversi di tuo nonno, di tuo padre; giungere al loro apice e proseguire, verso la discesa; conoscere la strada futura è ripercorrere l'esistenza altrui prima che la propria.

Il bianco e nero delle foto, i quaranta grigi sullo sfondo, il fiocco elementare e il banco di legno. Il controllore sull'autobus, il portinaio, il salumiere, la tabaccaia, il fornaio, il poliziotto, il chirurgo, il professore, l'ingegnere e l'industriale, sono a malapena quattro persone.

Mescolare i mestieri vissuti di sponda, per memoria, per narrato. 

Ripercorrere la fame, passeggiare con loro la domenica per sniffare l'odore della carne dai balconi d'oro. Vendere il porco e non poterlo mangiare: questa è la città. Entrare al cinema la prima volta a vent'anni, scoprirsi impotente con lo stipendio statale, scoprirsi ricco dopo essere stato prodigo scugnizzo di una famiglia povera.

Scoprire il comunismo estremo degli anni 70, i libri e le interviste, l'attacchinaggio alle pareti di una donna con la gonna non troppo lunga, trovare in quella donna tua madre e difenderla quando  la chiamano puttana e non militante.

Scoprire Tannio il Brigante e i colpi in petto, sentire le cinghiate della notte prima del matrimonio, scoprire il fucile ancora carico del tuo bisnonno. Partire per due guerre come volontario, per un po' di pane e qualche terra non promessa. Sentirsi fascista, sentirsi demilitarizzato, sentirsi in lotta continua.

Scoprire la campagna, i monti e i ciucciari. Scoprire le mille "fatie" della giovane nonna, vederla in gamba e coi capelli neri da sempre. Sentire sulla pelle le cicatrici altrui, puzzare di letame in città, avere la schiena distrutta: ripetere il percorso altrui. Abbracciare un uomo alla corda e seppellirlo sotto un fiore, morire con lui.


 Scoprire il proprio futuro è ripercorre il passato altrui.
Continua il percorso: 
Ripercorrere: Compagna suggestione 
Ripercorrere: La cento e 4
Ripercorrere: Questo sconosciuto

sabato 28 aprile 2012

La vallata


I piedi nudi danzarono sul prato, le piante sottili aderirono scaltre, le dita silenti entrarono in contatto col verde profumo della vallata. Le urla giocose dei pargoli viaggiarono fra i monti accoglienti che con amplificata dolcezza furono restituite alle orecchie divertite. Gli alberi erano scale da percorrere con umana creatività, il tetto maestoso mostrava orizzonti inesplorati, mai il finito sembrò più immenso. I piedi nudi affondarono nella calorosa terra, accogliente e perennemente gravida di vita. Il muschio pizzicava l'olfatto e l'aria gonfiava i polmoni fino a imbarazzare il fiato, un colpo di tosse e un amaro sorriso. Il sole baciava le labbra e le parole della giovane fanciulla nel suo antico canto. Il ruscello abbeverava la comunità limitrofa, le donne e gli uomini, i vecchi e i bambini, nessuno era escluso: era il padre di tutti.

venerdì 27 aprile 2012

Pater Stimolog

Non ci crederai amico caro, erano lì, non mi sentivo più solo. Ero appeso come solo nella penna solitaria, nel battere e levare con accordi e note per sfamarmi. Sentii un usignolo, un dolce menestrello cantare, triste e sentimentale, gaudioso e geniale. Mi vendette le rime di poco conto per lei, la donna del mondo. Ora basta; siamo seri: ho da raccontare di amici veri. Con le rime basta, asciutta si bagna la pasta, ops la patta. Dai, basta: volevo dire una cosa vera: ho un amicizia seria. Ero contento quando ho iniziato a scrivere, adesso sono frustrato perché il verbo ho cambiato, per una rima di troppo per una parola mi scotto, il senso del parlare a nulla vuol servire. Ecco ce l'ho fatta, la rimamania mi ha abbandonato. Volevo dire del menestrello, amico di sempre da poche righe, sorella poesia e fratello di mille libri, padre della mia vita. Era in calzamaglia, mio padre, con una zucca al seguito. Fammi ridere!- a mio padre disse: Allieta il banchetto! Urlava contro mio padre stridulo il manager orientale. Ho vissuto un trauma, per mio padre, da quando si ferì alla mano divenne il buffone di corte, non viveva davvero, mio padre, ma nutriva in me la speranza. Tutto questo in realtà non lo sapevo, te lo racconto ma non potevo saperlo. Lui viaggiava sempre, io credevo fosse un ambasciatore. Quando lo vidi con la calzamaglia di 3 colori, giallo, blu e verde: diventai daltonico. Non ci crederai caro amico, ma oggi scrivo su un blog e ho tanti amici che lo fanno, ognuno ha la sua casa comoda e padre genetico. Cerco di ricostruire la storia della vita di mio padre, vorrei incontrarlo, mio padre, prossima tappa il Cilento. E' tempo di esplorare tutto il Mediterraneo, prima o poi lo troverò, mio padre.

sabato 21 aprile 2012

La ScAlata

Dall'antica scalata dell'uomo lettera
Un abbraccio, due o tre parole e quattro ore di sonno; prosegui la serie passa per i sette draghi, è la strada giusta per essere dei nostri. Supera le curve della costa sotto la sfuriata dei chiodi zampillanti, scarta le donne e non farti ammaliare dai loro uteri, son teneri ma annacquati. Mostraci le rughe, se sono fuori per lavoro, lasciati solcare il viso come gli Unni, sarà rapido e indolore. Le lingue sconvolte puoi darle a Babele, lei è in turbolenta attesa all'ultimo piano, se non sali lei scenderà dal tetto in strada con un cuscino in trevirgolasette secondi. Non far caso alla polvere sui mobili, al massimo passaci il dito e digerisci i batteri al tatto; non soffermarti. Io e lei dobbiamo scappare c'è Non Dire Mio che aspetta la Vecchia Romagna, la decrescita e la lentezza. Al ritorno saremo biondi come non lo si è a lungo, irradieremo il tuo cuore, saremo forti e impetuosi, sarai gonfio di affetto. Appagamento o a pagamento questo è il dilemma. La risposta giusta la saprai solo se prosegui la serie. L'ultimo è un incipit per mille romanzi, lì sarai come noi, coi nostri corpi favolosi e accoglienti. Il primo è un abbraccio, quello di tuo padre, quello mai avuto, quello ancora piegato nel cassetto. Se sarai bravo non ci saranno saloni ad accoglierti con adulazioni intellettualistiche, ne poltrone in pelle con cui dondolarti. Ci saranno giovani bambini ad innaffiarti così che sarai uno splendido essere, felice e gaudioso della scalata, sappi però che non saprai rispondere alla domanda: Che cos'è il corpo? 

mercoledì 11 aprile 2012

EmiCrania


Scrivo seduto su pietre aguzze, su falsi miti e su lamiere quadrate. Gli arnesi nel porcile fanno una pulizia marginale, lieve, sommaria, d'apparenza. Scrivo steso e il soffitto piove sulla testa, sento soffocarmi, il vento batte le coltri e i sentieri interrotti, una pentola è il cielo, malvagio mi schiaccia. Le fiere monumentali del cappello con la piuma, il figlio, la moglie, la badante e il corpo, ieri simbolo del potere, d'improvviso si consuma. Tanto filo spinato fra la città e la campagna, fra il lattaio e il negro, resta solamente un fucile da compagnia col pastore a far la guardia. Il delfino sguscia dalla terra molle, sgranata e appassita, fra la nebbia e le ampolle. Ha poco da dire, ripete un'eco a lui noto. 
Ho mal di testa, ecco perché oggi capisco tutto del mondo, di quello piccolo e misero, della sua magnificenza, della fantasmagoria di Duchamp e delle piovre verdi. Prevedo le sue parole, i suoi proiettili, le sue menzogne dolci e i suoi sorrisi nevrotici. Comprendo le crisi esistenziali, politiche e sindacali. Comprendo tutto tranne il dolore, quello interno, viscerale, eruttante dalle cavità sommerse dell'es, pensavo d'esser al crepuscolo dopo ictus e rinunce,  invece tiepida la notte si sfa e l'alba si fa. Ricordo che un tempo ero prossimo alla morte, ma senza il prete buono sarei finito all'inferno, aspettai il suo ritorno dalla missione abissina, ma non sono morto, ho troppi peccati da espiare, non posso morire. Posso solo avere quest'emicrania che non se ne va, dimora in me, passeggia fra i capelli e il naso. Posso solo cedere ai farmaci per vizio, ma per piacere, come molti uomini d'onore, posso solo tirare a campare che è sempre meglio che tirare le cuoia.

giovedì 5 aprile 2012

Esercizi di Non Stile Dada Mama Papa


Dopo tutti i dì, le menzogne e le figure null’altro rimane se non bestemmie e amori. Amore e lotta, amore è lotta e lotta amore. Entrammo fra slanci di serene e pascià, fra sol e re, con re sol, fa re sol. Dada è un pensiero fugace, veloce, rapace: un’orchestra alla finestra. Attraimi con i balli di calzini e le balle da raccontare. Mama non sa che si fa, com’è che dà e che sarà, sa solo che un assolo la aiuterà. Il ritmo fresco, snello, mesto e bello: mesto è bello. I negozi di kuss kuss nel bus, le parole che si violentano da sole, si violentano da sole le signore, i signori hanno ben troppi umori. Il grigio al sole, sole folle, folle se, folle sole. Adieu francesco Forlani, le tue mani con cui batti le mani, i piedi, le cosce e le angosce. Papa, non ci sta è morto.  

martedì 3 aprile 2012

InQuadro

Le periferie nei cimiteri, i quartieri in coma e i ventricoli in affanno. La città nel quadro era nell'agio adatto, nel grande centro s'addensava il tutto, cumuli di persone, folle di cenere, tram incastrati negli alberi e metro che trainavano palazzi di amianto. Cammino per la strada maestra in cerca di uno sguardo, un incrocio nobile allo stesso tempo sarcastico, un amore a prima e ultima vista, uno scontro. Nessuno guardava nessuno. Sbadato urto un auricolare con il suo signore a spasso, questo prosegue, la giacca s'aggiusta da sola. Alcuni avevano tic, camminavano goffi, sembravano a disagio con quei vestiti, perdevano fogli e si aggiustavano continuamente gli occhiali: erano finanzieri, notai, architetti, commercialisti. Alcuni avevano un filo da seguire, una traiettoria fatta di passi che seguitano passi d'altri: erano avvocati che inseguivano magistrati, camerieri che inseguivano i clienti sbadati o poco furbi, c'erano i volontari delle associazioni umanitarie a delinquere che inseguivano i polli. Mi sento male, urge un vicolo con un ex puttana dedita al contrabbando, con una sigaretta appoggiata sulla bocca della giovane puttana, con i bambini che raccolgono le cicche e se le tirano dietro per giocare, con dei tossici che giocano con la vita. La città ebbe solo un grande centro, tutti ben vestiti e ripuliti dai negozi, le culture  di periferia scomparse, rifugiate in chissà quale paradiso e m'accontento dei vicoli del non posso, del faccio quel che posso, del centro lontano soldi luce. Un quadro e poco più, passo al prossimo della mostra. Non sono un esperto d'arte ma lui voleva a tutti i costi che ci fossi. Vedo lei, celeste e nera negli abbagli di primavera. Spiegami il prossimo.

sabato 24 marzo 2012

Il secolo giovane


Morimmo tutti, almeno una volta, qualcuno rinacque; noi no. Fra le sirene e gli affari spiegavano agli uomini dabbene che erano tutti salvi. 

Fra il pane e la libertà nessuno scelse le mani giunte o i pugni agitati, preferimmo tendere mani a giacche fantasma. 

Nessuna faccia a commentare la morte in diretta. Le martellate alle mogli, in faccia e sul cuore, 77 anni, 50 insieme; canna alla gola, la nipote torna da scuola.

 La collezione di coltelli nel cortile della chiesa, la ragazza distratta da uomini più magri, i centimetri per raggiungere il cuore con una lama e calme sbarre. 

Le finestre appese nei quadri suburbani celano mirini e proiettili. Il tritolo, il nastro adesivo e lo skate, un unicum nei tubi autostradali, le auto in volo e gli schianti in cielo. Le torri abbassate, la Babele di settembre, il caos di carta. 

La guerra in diretta fra burka e chador, fra gioielli e mercenari. Le esceuzioni in tempo reale, i voti dei neonati e quelli di noi tutti; morti. 

Il secolo dell’uomo, o meglio, della macchina antropomorfizzata, confermò la sensazione infinita in una vita infernale, cybernetica. 

Nessuno rinacque fra i fiumi o le valli ma solo fra facce e programmi. Morimmo tutti, almeno una volta, qualcuno rinacque; noi no.

lunedì 19 marzo 2012

Cono di luce

"Voglio una musica che faccia zittire" cantava in un cono di luce il cantante, il menestrello della strada, il padre di un figlio; un uomo.

Lontano dalle vostre serate estive m'addentro nei lampi, solo lampi, solo lampi accecanti; nel "solo" che trasuda parole, pensieri, opere e missioni. Nell'affittarvi erba, donne dei contadini e marinai; affittaste la mia incredulità ma non valeva la pena restare altre ore o minuti con voi. Lasciai la chitarra al cono, al suono mimetico della gruppo anonimo, al ritmo dei vostri bisbigli, ai vostri congiuntivi lasciati fra gioielli e fiori volgari. Quella terrazza stonava, quegli schiamazzi dal basso invece erano come la madonna. Il sesto piano è falso, il quinto è corrotto, il quarto ha un figlio di troppo, il terzo ne ha uno in meno, il secondo fa ripetizioni a basso costo a quelli del primo che fanno scuola al figlio del portiere. Ci vediamo nel sottopalazzo, nel sottofondo, nel sottotono, nel sottovuoto che è l'anima mia. La trincea di solitudine, la mia curiosità, i vostri "come stai", non voglio nemmeno 5 minuti con voi, non voglio signore distratte e cortesi. La vostra cortesia mi uccide, meglio la ballerina col cesareo sotto i seni enormi. Ripresi la chitarra, c'erano ancora le mie dita ingiallite, incollate. Mi alzai dai vostri accomodanti "benvenuto", andai dalla madre dei miei figli, prima però dalla ballerina sconosciuta, un pizzico per una bocca spalancata. Loro, i miei figli, potranno parlare male di me per ore. Baratto la chitarra con una sconfitta, con Libero il mio Argo, con le stelle, con i libri di corallo. Ci vediamo in fila per gli "arrivederci". Non penso di essere più ubriaco di voi, non lo penso, forse lo sono; ma non lo penso.

giovedì 8 marzo 2012

Alba

I miei amici sono anime d'annate, sono anime dannate, sono anime sempre neonate. Sono all'alba umida della fermata del bus, senza orari, senza direzioni. Sono coi capelli bianchi e spettinati, la lisca di pesce come pettine, i vestiti con colori disarmonici e frammentati, hanno gli occhi grandi come tutto l'oceano. Sono in divisa senza avere alcuna mansione, relegati in strada a fare da guardiani del giorno che nasce. Di fatto: se il sole sorge è merito delle loro vigili attenzioni, deposte con cura pia. I miei amici non discutono della crisi, la subiscono. I miei amici non credono in Dio, ne hanno fede. Non rispettano l'ambiente, sono la natura. I miei amici sono la prova che fra resistere e restare c'è un gran passo da fare. I miei amici sono di un altro colore, di un altro aspetto. Sono il futuro regresso, la via punita. Non conoscono il compromesso, sono amici non compagni.


E' doveroso precisare che il post è volutamente sarcastico e la prova è che io non ho amici.

lunedì 5 marzo 2012

L'incontro


Non c'era molto da dire fra noi, eravamo troppo svegli per cascare nella trappola del dialogo spontaneo, sincero, di quelli sentiti. Eravamo di quelli che preferivano parlare dello spietato "più e meno", del già detto, dello scudo protettivo che congela conversazioni in libero scorrere. Raccontavamo i fatti in modo meschino, con la metodica risata al momento giusto della narrazione. Eravamo sadici, la cruda realtà del nostro essere;entrambi odiavamo la banalità e dunque l'uno a far leva sull'altro con questo tranello malefico. Il nostro legarci era un dolore continuo, ricercarci nella mediocre stasi, nel respiro a quattro quarti. Del primo incontro, questo di cui scrivo, non vi è che un paio di teste fasciate ma al contempo alte, con narici libere e occhi spenti. Arzilli solo con la paura di rivivere il passato, con la volontà di conoscere il presente. Mille angosce dietro ogni piccolo gesto, qualche sorsata, anzi molte sorsate di tanti bicchieri non nostri, rubati ai ricchi da noi finti poveri. Il mio sadismo fu incompreso dai più, quando la menai sotto le stelle voraci, sotto la scia fantasmagorica del cosmo, in troppi si riversarono contro di me, ladro di biciclette, astuto amante, per menarmi. Lei nervosa, amava il mio pugno e ne rimase delusa dal solo, voleva ancora altro; molto altro. Voleva quelle luci soffuse di pessime bettole ma soprattutto ritornare adolescente, vergine come non voleva lo zio. Vergine: come non lo si è a lungo

sabato 3 marzo 2012

Brezza Umana



Volevamo imitare il mare e invece ci separammo. Un flusso di rumori ciclici che si tramutano in soffici carezze per l’orecchio, un’armonia ancestrale, primitiva che cola sui granelli di sabbia assolata. Il riflesso bianco della tavola apparecchiata, un salto da combattimento di qualche indigeno squamoso. Qualche barba e un filo, un amo e un cappello, un giubotto leggero e l’umido che sale per la schiena, come una donna e i brividi che comporta. Un piacere sussurrato dal vento ai custodi, un bacio dalle coste violentate, in quell’odio e amore che è l’eterno. Come è profondo il mare nelle sue correnti algide e bollenti, nel suo tener tutto insieme sebbene diverso, ogni goccia con i suoi modi e le sue richieste, ma questo, non lo sapremo mai. Lo sapremo a proposito degli uomini. Ci separammo quando volevamo imitare il mare.


lunedì 27 febbraio 2012

La quadriglia


Le curve si abbreviavano lungo l’autostrada dei fantasmi, giuro di averne visti tre, nitidi e familiari, inquieti quanto me; solidi. Erano lì senza braccia appesi ad un palo, con lacrime ubique sui miei occhi scendere nei loro. Volevano la morte, le mani folte e prospere di verde erano già lontane, l’amico diede un colpo di tosse, poi un silenzio tutto attorno. L’auto comincia a suonare, non è la radio, ci adagiamo nella macabra esperienza; canticchiamo. Siamo in tre o in quattro non ricordo, vedemmo morti risorgere e parole sottrarsi dalla pienezza esistenziale, un’aura o poco più, forse è giorno; forse è solo un sogno

sabato 25 febbraio 2012

Assonanza finale


Lì, lungo il cammino, un gruppo di piccioni che confabula, sebbene siete brutti come un piede, non ho alcuna voglia di traumatizzarmi perché uno di voi non si scansa dal mio cammino, imposto prepotentemente, che non riesco ad arrestare. Se mi fermo penso, pensare troppo mi uccise quasi una volta, preferisco i lavori meccanici, di quelli definiti precisi. Sportello delle scommesse, responsabile di un'ascensore o anche di un cimitero.Il mio massimo impegno cognitivo sarà il cruciverba. Proseguo con l'auto brilla e le ruote alticce e raggiungo il parcheggio domestico: i gufi accompagnano il panettiere alle consegne, mi saluta ed io con educazione gli faccio un cenno col mento. L'alba della luna che sorrise ebbe una diagonale felice; Venere e Giove bei pianeti, quel giorno furono profumati più che mai. Gli occhi, schiacciami gli occhi, non baciarmi, schiacciami gli occhi, la resistenza si rinnova contro i nemici di classe in forme antiche, nella fotografia ti eri pisciato addosso, perché ti piace tanto? Un morto ha tanti discepoli, tanta veggenza e pochi figli, quasi tutti lo rinnegano. Non avrò assistenti, bene che io sia bidello e tu segretaria, basta che il cervello faccia silenzio e tutto il resto scompaia.

giovedì 23 febbraio 2012

Non dire mio


                                  

Non dire mio amico mio, non esiste, è una strada errata. Me lo dicevi con una birra, poi con un cognac e infine a tutt’assenzio. Eri sincero nei tuoi conflitti, dicevi: la carta d’identità mi opprime, fare il biglietto in metropolitana pure, io voglio la terra. Tu con lei sei un tutt’uno, sei la radice stessa, il cuore pulsante della terra, non rossa, quella sì che spaventa, e poi ha un sapore strano. Non mi scrivi più, dici che il word ti deprime, lasci bottiglie vuote senza messaggi, eppure hai molto da dire. Dici che non riesci ad esprimere quello che hai dentro, ti fa triste, ti scoraggia, ti fa brutto. I tuoi studi ti hanno ricondotto alla terra, senza citofono hai costruito una casa di legno, una piccola cooperativa dove si lavora, non si fatica. Vorrei raggiungerti, un anno sabbatico per l’Ulisse di Joyce nel tuo mondo Felice, ottima scusa. Ma la piccola Libertà non veste di penne d’uccello, ha bisogno di me, ha pochi anni sulle spalle. Scusa se la vaporiera prosegue ed io con lei, ma son famoso; ho una figlia che m’aspetta.

mercoledì 22 febbraio 2012

Precisazioni

precisazione uno: C’è chi nasce di notte e chi muore ogni giorno. Nel mezzo, come molte sere da qualche anno a questa parte, da qualche parte su un pianeta indefinito, qualcuno, non importa chi sia, nell’insonnia cronica legata a qualsivoglia motivo, desideroso per qualunque causa di distrarsi, non importa chi sia; scrive. Per essere più precisi è devoto alla Scrittura.
precisazione due: senza non saremmo niente

domenica 19 febbraio 2012

Stupido non ridere




Ci perdiamo, ci confondiamo, ci arrestiamo o proseguiamo a ritroso. E’ una vita incontrollabile nella sua lentezza, inesorabile a gocce scende perpetua giù a fondo. 

E’ un bisogno di attenzioni e cure, spesso meschine come troppo se mi vuoi bene piangi, riduttive, piccole. 

Un mondo fatto da poche persone incollate con un’idea, uno stereotipo, un genere, un archivio, uno scaffale, un foglio,una serie di lettere, un codice, un punto. Un sentire continuo di equilibri inesistenti, a pezzi di pazienza e tolleranza assorbita dalle atrocità dell’uomo. Piccoli e testardi, minuscoli e ottusi ci perdiamo nell’inutilità dell’amore, del legame affettivo, dell’amicizia storica. Per loro siamo disposti a cambiare, a mutare, a fare, a dire, a difenderci, a respirare, a morire. 

Siamo granelli che in contrasto fra i propri interessi scivoliamo nel petrolio; ci sporchiamo diventando ricchi. 

E’ una storia breve, di poco conto e che non sempre vale la pena di ascoltare. Non tutte le intelligenze sono utili a progredire, alcune vivono di solo regime; il proprio. Bisogna sapersi bastare, dire una parola in meno e passare un’ora in più con se stessi, se si cerca gli altri perché non si è in grado di stare soli, cercare la compagnia diventa immorale. 

La prossima Repubblica sarà diversa con assessori all'ottimismo, al pessimismo e al realismo. La prossima Repubblica sarà diversa, ci saranno i sognatori ad occupare le poltrone e gli incompresi a dirigere le orchestre, i preti a far casino e i bambini a predicare il bene. Stupido non ridere.

soundtrack: La repubblica del sole - Ettore Giuradei

sabato 18 febbraio 2012

Shock osmotico

Calda e affettuosa la notte alita sul collo, sull'inguine e sulle caviglie; la temperatura è quella giusta. Rinchiuso fra queste quattro mura spesse di ricordi e rimorsi provo a respirare; sono quattro mesi che non esco. Come un topo con le vertebre mi infilo fra gli spazi più inconsueti; non mi troverai nelle piazze. Nel nitido presente provo a ricordare, ricordare; provo a ricordare. Il perché sono qui non so, poco o nulla faccio, getto cicche dalla finestra, o meglio dal buco/luce, ostile nemico. Un po' di introspezione: vivo la drammatizzazione dei gesti elementari. Mi affanno ad agire, commisero nell'agio, penso molto; tanti labirinti da percorrere. La mente si affolla di Geni familiari che pongono quesiti elementari:
Che cos'è il vero? Ho chiesto a Pilato, sono in attesa di risposta intanto ti dico:  nulla di che, una tacca sotto il sognato.
Che cos'è il piacere? Un desiderio non un sentimento, un massacro inumano: vivere è per sua natura uno stato violento.
Che cos'è la noia? l'abitudine da interrompere col sogno, con l'oppio e il dolore.
Geni non mi conforta parlare con voi, dove posso trovarvi così da evitarvi? in Islanda o in qualche liquore generoso.

sabato 11 febbraio 2012

Misantropo al Crepuscolo


Quante volte ho ferito con l’html, quante volte mi sono scottato con la tastiera e il suo ordine di lettere caotico. Quanti materassi ho rotto prima di soffrire, di morire un po’ ogni giorno, senza né alti né bassi, ma solo con un lento sfiorire. Questo post è prossimo al silenzio, nessuno slancio vitale, la mia, caro bit, è fiacchezza esistenziale. Estenuato dal mondo e dal vivere ciclico e cadenzato, dall’io e dai suoi complessi, slego i lacci dal doppio nodo e tolgo le scarpe, una per volta, prima la sinistra e poi la destra. Via i calzini, puzzolenti e lacrimanti come quelli di un poppante. Un rosario sussurrato al centro commerciale. Scalzo, i carboni ardenti, il mio corpo spento s’arde per un momento, poi via cenere d’un coso con due gambe e un naso chiamato marcomastrandrea. Cullo nel fuoco; libero nel fuoco m’adagio, voglio adagiarmi…voglio adagiarmi in un tedio che sia infinito.

domenica 29 gennaio 2012

Sogni Corrotti

La musica si libera, sospende i corpi fantasmi nel cielo spumoso, nella collina in cui tutto si perde. 

Fresco e puro procedo nelle vallate della mente, nei taccuini degli scrittori, negli appunti dei pazzi. 

L’angolo destro della mano sinistra è macchiato, l’inchiostro spalmato sulle cicatrici, il callo sul profilo del pollice. Scrivo al computer, batto su una tastiera, un dramma non farlo su una macchina per scrivere o su un foglio.

Ricordo del passato dei piccoli sentieri ininterrotti che seguivamo, con lo sguardo fisso, noi ombre in cerca di un corpo da abitare, ricercatori di una sostanza purificatrice. Ricordo del futuro; sono in una cascina fra gente amica e amici della gente, tutti cantiamo, siamo tutti felici e scrittori. 

I libri prima di essere pubblicati giungono fra le sue mani, lei esamina scrupolosa, controlla il conto corrente e scrive una menzogna su un giovanotto di ben pochi talenti; siamo tutti felici e scrittori. I fatti prima di avvenire controllano se a lui sono graditi, la penna forte, il narratore, controlla la ciotola, un po’ di cibo al ghostwriter e l’intellettuale seriale si presta alla società.  

- Le parole sono importanti- urlava il direttore, oggi guarda la sua giornalista alle prime armi un po’ “kitsch” e le dice brava, un biscottino e via il guinzaglio. Tutti felici e scrittori, con seguaci e segugi. E infine l’ultimo, il ragazzo che voleva la barba, quello che chiudeva un drum nell’attesa che uscisse dal palazzo del Potere qualunque politico per assediarlo, quello che intervistava i portaborse delusi per farli cantare, che si sognava magistrato del giornalismo, quello che passava le notti sul pezzo e che riempiva posacenere con cicche gialle e cestini di carta mentre trascurava gli affetti; quello dalla bottiglia vuota e il cervello pieno. 

Ha una barca, un vestito bianco di kashmir, due ex figli e un’amante, una morale nella lavatrice guasta e attrici da raccomandare ai contatti giusti, con le parole giuste perché sono importanti. Lui è il re dei giornaletti delle immagini, delle facce di plastica, la sua di bronzo è ancora lì, quegli applausi in quei salotti un tempo sarebbero parsi sputi, oggi sono il pane, quello più buono nonostante il pane sia sempre pane. 

sabato 28 gennaio 2012

Sveglio Scrivo Dormo

Quando nacqui avevo le lacrime, fra la pelle in avanzo, fra i sorrisi altrui. Oggi quei sorrisi sono nella terra lieve, la pelle va a pennello e ricordare quelle lacrime mi fa sopravvivere. La lampada illuminata dal sole proietta gru che s’affacciano al monitor del computer. La scrivania è immersa di dovrei, di carte, di scartafacci,di lampade rotte, di cannucce, di metronomo, di chiavi, di un fazzoletto strappato o di due fazzoletti interi, di scatole di tabacco, di cartine, filtri sparsi come biglie per la strada, un cimitero di cicche, biglietti di bus, accendi gas scarico, accendino scarico e accendino scarico. Dalla finestra, voluta appositamente di fronte al luogo in cui scrivo, c’è un’ottuagenaria con occhiali spessi e gambe esili, un ragazzo sbronzo, una madre preoccupata, un quarantenne coi capelli lunghi, una telecamera. L’allarme del locale si intreccia con il secondo che proviene da un auto nel vicolo successivo, probabilmente. Un gatto silenzioso fruga nell’umido, è stanco, ferito ad un occhio e molto cane. E’ da tempo che dico – non scriverò mai più quello che vedo- oppure – giuro questa è l’ultima volta- Prima ero orgoglioso di questa abitudine. Mi rende felice, mi aiuta. Quello che vedevo era assimilato, ma dimenticarlo mi intristiva molto spesso, a molti uomini dicono sia il contrario. Tutti dicono di avere pochi ricordi felici, con isterismo si convincono nel racconto che erano davvero felici in quel momento. In realtà, sono felici quando lo raccontano non quando lo vivono. Quando raccontiamo stiamo bene. Quando viviamo stiamo male, ricordarlo è più semplice, ha la sua profondità. Una lieve e continua profondità, quotidiana. Io non voglio soffrire ogni giorno, voglio raccontare ogni minuto, perché mi rende felice, anche se scrivo di cose tristi. Sono anni che mi sveglio, scrivo e dormo, vi assicuro che il ritmo giusto è così: s v e g l i o v i r g o l a s c r i v o v i r g o l a dormo. Un’ora e mezza di film in sedici ore, la percezione è diversa, è un’altra vita rispetto a quella degli altri. Mi sembra di vivere da duecento anni, il ricordo e la descrizione di quanto succede attorno alla scrivania, mi rendono felice. I ricordi non finiscono mai ricordo di  quando ho avuto un’idea geniale, quando ho visto mia madre, quando mi regalarono questa scrivania. Ricordo il primo dialogo che imparai a memoria era tra l’ostetrica e il medico, parlavano di mia madre. Ricordo  il suo sudore,  i suoi capelli sporchi, l’amore che riversò in me per tutta la vita; piangevo. Piangevo perché la sua morte coincise con la mia nascita, lei sorrise e io piansi. 

mercoledì 25 gennaio 2012

Serata fra Amici

Serata fra amici; si fa per dire. Il bluff col servito non lo accetto mai, c'ho perso poco, ma un poco al giorno si perde tutto. Una bottiglia in meno anche oggi, scesa con un amico; si fa per dire. Stava sotto al ponte del Castello, gli ho girato un po' la bottiglia, perché ogni tanto bere in compagnia ti fa sentire meno solo. Avevo finito di lavorare con un gruppo di amici; si fa per dire. Esserlo di fatto è impossibile, il progetto è troppo ambizioso. A pranzo mi sono visto con un'amica; si fa per dire. Una sveltina con la musica e zero baci. Eravamo in pausa, dovevamo urlare e l'ufficio era pieno come il bagno del secondo piano poco dopo. La mattina non era delle migliori, diventerà padre un amico; si fa per dire. Lui convinto che sia suo figlio, io no, io e la moglie siamo amici; si fa per dire. L'ieri sera mi ha proposto una Serata fra amici; si fa per dire.

giovedì 5 gennaio 2012

Vecchie cartacce

Potrei parlare della città delle mele, delle pere, del fumo, quella dove vige il consumo legale e non di sesso, di quella ipermoderna o della regina alla cabina telefonica, di un amarcord insomma. Potrei parlare del giorno di Natale, del 14 Dicembre o dell’11 giugno, del giorno della morte di Cristo o di Che Guevara e invece no. Quel che mi accingo a scrivere è il frutto della serata appena trascorsa, così vera da sembrare noiosa, spero tu non legga e continui a scorrere la tua esistenza anziché rallentarla per queste rigide righe prive di fantasia.
Ciò di cui parlo è la notte degli encefalogrammi piatti, meglio chiamata come “la notte dei cervelli pari”. Nel primo pomeriggio citofona la mia ragazza, Lei insomma, risorta dalla particolare serata  mi bacia con allegria, con l’eccitazione che le ha fatto dimenticare le mutandine. Mia madre donna tapis roulant si lamenta mentre stende i panni mentre mio fratello sbuffa ad ogni passo, perché è così che ha imparato a camminare. Nel cortile murato c’è lei, fuori luogo perché cervelluta, perché normale, a disagio perché le sue unghie si stanno ritirando. Io passivo, schivo qualsiasi ambigua questione fra le donne di casa e lei mi rinchiudo in una passatempo inutile. Avanzano le urla e allo scrollarsi delle pareti tiro le code di tutte loro, le lego e compro delle museruole. Decidiamo fra i pianti imposti dal prete di uscire per acciuffare un po’ d’aria, lei si è messa una lattina fra le gambe mentre io ho uno spago sul pene e al termine dello spago vi è una pietra. Incontriamo altre persone vestite come noi, fra questi Hansel e Gretel stanchi di perdere briciole e desiderosi di gettare vecchi dai cavalcavia. Ci invitano a seguirli, fra noi uno sguardo di coppia risoluta la risposta è-perché no-
Lungo la via incontriamo un tabaccaio, primo uomo del dizionario alla lettera t. Si vanta mentre emana odore di sigaro e suda vapore nicotinato. …to be not continued…

martedì 3 gennaio 2012

AdoleScienza

Quand'ero piccolo scrivevo poesie, piangevo per tutto e scappavo dai cani. Impaurito, al freddo e al buio, camminavo lontano dalla famiglia, trovavo amici su internet e alcuni di questi avevano l'età di mio padre. Un ti voglio bene e una pacca sulla spalla sarebbero bastati e invece ho trovato un amico, forse dieci o cento. Credevo fossero tante versioni delle mie poesie che si concretizzavano: la ragazza cattolica malata terminale, Edward l'assicuratore, Imanuel il pugile e ancora ragazzi, poeti, attori, musicisti, ballerine e drogati. Non ho mai avuto vocazione se non per il complesso familiare, anzi no, anche per quello personale. Sempre ad affogare in un mare di solitudine e noia, in un mare di attenzioni mancate e di sorrisi diplomatici. Sempre estremo, deciso con pochi, incerto con molti, sempre con gli altri a pensare quale mondo potessi contenere, quale fosse il mio mistero. Nulla, il velo della rabbia e della radicalità coprivano il nulla e lo svelavo a poche persone sperando che mi rivoltassero come un calzino, che mi rendessero moderato e sincero, pronto ad affrontare qualsiasi situazione.
 Queste parole, poche e macinate in secondi sono per te, che non sei me, ancora ignaro del tuo futuro, che si ritrova in una frase, in una parola o in una lettera o, meglio ancora, che non si ritrova in nessuno di questi casi. La dedico ai poeti sconfitti o semplicemente agli adolescenti, ai figli borghesi, alle notti insonni, alla curiosità e alla scoperta. Non c'è nulla in questi versi perché non c'è nulla che posso dirti, non c'è nulla nel mio mondo grigio, certi giorni aspetto un pittore, una donna o semplicemente un po' di calore.

domenica 1 gennaio 2012

Lo scrittore


Disegno e dico che scrivo, coloro una casa e dico che vado a scuola. Ho poco tempo per giocare con tutti i giocattoli, uno alla volta per favore. Mamma ho scritto un articolo, mamma guarda come sono bravo. Sì figliolo, sei proprio bravo. Dici che da grande farò lo scrittore. Io ti credo e tu? Gli direi ora con minima punteggiatura. Sono anni che cerco di scrivere un romanzo, fin quando non lo scriverò dovrò continuare a fare il bidello, che si sogna professore e resta bambino.