martedì 3 gennaio 2012

AdoleScienza

Quand'ero piccolo scrivevo poesie, piangevo per tutto e scappavo dai cani. Impaurito, al freddo e al buio, camminavo lontano dalla famiglia, trovavo amici su internet e alcuni di questi avevano l'età di mio padre. Un ti voglio bene e una pacca sulla spalla sarebbero bastati e invece ho trovato un amico, forse dieci o cento. Credevo fossero tante versioni delle mie poesie che si concretizzavano: la ragazza cattolica malata terminale, Edward l'assicuratore, Imanuel il pugile e ancora ragazzi, poeti, attori, musicisti, ballerine e drogati. Non ho mai avuto vocazione se non per il complesso familiare, anzi no, anche per quello personale. Sempre ad affogare in un mare di solitudine e noia, in un mare di attenzioni mancate e di sorrisi diplomatici. Sempre estremo, deciso con pochi, incerto con molti, sempre con gli altri a pensare quale mondo potessi contenere, quale fosse il mio mistero. Nulla, il velo della rabbia e della radicalità coprivano il nulla e lo svelavo a poche persone sperando che mi rivoltassero come un calzino, che mi rendessero moderato e sincero, pronto ad affrontare qualsiasi situazione.
 Queste parole, poche e macinate in secondi sono per te, che non sei me, ancora ignaro del tuo futuro, che si ritrova in una frase, in una parola o in una lettera o, meglio ancora, che non si ritrova in nessuno di questi casi. La dedico ai poeti sconfitti o semplicemente agli adolescenti, ai figli borghesi, alle notti insonni, alla curiosità e alla scoperta. Non c'è nulla in questi versi perché non c'è nulla che posso dirti, non c'è nulla nel mio mondo grigio, certi giorni aspetto un pittore, una donna o semplicemente un po' di calore.

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