lunedì 30 dicembre 2013

Perché la festa non deve finire e non finirà

Esclusi nel guscio collinare delle terre rese fertili dalla lava ci si assopiva di entusiasmo. La festa che non deve finire e non finirà. Ancora un bicchiere, brindiamo alla salute dei menestrelli, dei retorici buffoni di periferia all’altare delle chiese mafiose, al potere delle regge dei latitanti, al gregge che non passa mai come questo treno, come le tue parole.

-       – Tu queste cose le devi scrivere – ripetevi ossessivo fra i rami secchi e la terra fragile molle simile al ventre della donna cannone. Dicevi di registrare tutto quello che pensavi, biopolitica, futuro, movimento e stasi. Dicevi di non fare altro nella vita. Pensavi. E pensavi a rilassarti in qualche modo. In qualunque modo. Intanto ridiamo ancora un po’ così cascano gli occhiali, e quando così sarà le cose e le persone saranno lo sfondo per aspirare con gli occhi il paesaggio. Il paesaggio al mattino era piacevole, alternativo alla città, una possibile alterità per l’esistenza. Un’altra possibilità. Decidemmo di sposare tutte le figlie del sultano per farci contadini. Qualcuno si fece cane pur di restare nel giardino. Poi il dondolo prendeva a cigolare, la carne franava dalla griglia e il cane divorava ingordo le salsicce. Poi il cuoco doveva partire, il sabato lavora, e tu eri affamato.

-       – Non pensarci. Guarda il tramonto  Era bello: il sole iniziava a calare, le montagne succhiavano la luce fino a spegnerla per poi addormentarsi. Il sonno non ci appartiene, perché la festa non deve finire. Il tramonto non è finito. Eterno come noi. La musica delle chitarre randellanti sprizzava gioia ripetuta e incontestabile, le bottiglie sgocciolavano dal tavolo ai bicchieri, poi in terra. Il cane beveva tutto. Come noi. Poi indossasti il giubbotto e ancora il passamontagna, lei il cappello, lo scaldacollo, i guanti. Le ragazze dai visi gentili abbandonarono i sorrisi per sciogliersi nella terra ghiacciata lungo i prati d’argento. La trama dei rami era fitta e gli occhi molli.

            – Non vedo nulla. Ma dov’è il tramonto? – La libertà del sole è calato conseguenza gelida su di noi. I piatti volavano dalle mani della donna a bocca larga, pronta a crollare al primo schiaffo. Era tempo di menarsi. Di tuffarsi. Di provarci. Di restare nudi al freddo, a sognare una conchiglia in montagna e un pianto all’oratorio.
-      
           – E’ tempo di andarsene – Non c’è più lui, quello con l’auto. La stazione lontana si fece vicina passo dopo passo, franando in discesa raggiungemmo la meta in tempo per perdere l’ennesimo treno della nostra vita. Ghignante strascicò lungo i binari in faccia alla nostra felicità immune da conseguenze.

-        Balliamo un po’ sui binari, perché sai, la festa non deve finire e non finirà. Siamo scout della vanità – Asciugati le lacrime di sangue, zabaglione e miele. Lascia stare il telefono, corriamo e sbuffiamo come treni, prima o poi ci fermeremo e sarà ancora festa, ancora un po’, il tempo della prossima stazione e vino forte sarà. 

martedì 24 dicembre 2013

Sciocco

Perché dirsi ti amo fu sciocco
obsoleto, fissato
nella ideale visione
di quanto creduto eterno.
Lo sapevamo. Incastrati
a desiderare con maestria.

Avremmo sconfitto in battaglia
la morte vincente;
a lei la guerra
meno epica della nostra sconfitta.

Oltre la morte avremmo vissuto
abbracci di anime in corpi annullati.
A fare l’amore
in case disegnate dai nostri figli.

Avremmo fatto luce
vicendevolmente
mentre i problemi
andavano a cospargersi;
i nostri denti gialli
lottavano per l’ultimo giorno

filtrando lunghi sorrisi.

giovedì 12 dicembre 2013

Un allaccio alla vita


Tutte le volte che mi innamoro. E’ un tempo breve. Intenso. Senza fiato. Senza maestri. Mio. 
Che respiro. E’ vita. Non morte. Progetto senza peso. Senza domani. Di vita breve. Senza morte.

Tutte le volte che mi innamoro. E’ colpa del tuo odore. Dei tuoi occhi. Dei tuoi silenzi. Del tuo viso. Del tuo teatro. Della tua arte. Dei tuoi misteri. Dei tuoi miseri sorrisi. Delle tue grosse risa. Della tua inadeguatezza.

Tutte le volte che mi innamoro. Non amo. Non costruisco. Non morte. Né vita. Tutte le volte che ti respiro. E’ vita. Quando te ne andrai. Mi innamorerò. Sarà finita. Un nuovo inizio. Una nuova vita.

Tutte le volte che la fai finita. Tutte le volte che fai finta. Bussi alle mie prigioni. Ti chiudi. Mentre ti apri. Ti amo. Quando disordini la mia vita. Ti amo. Quando disordini la mia stanza. Dimentico le priorità. La vita. Non penso, alla morte.


Amo innamorarmi. Un allaccio alla vita.

venerdì 29 novembre 2013

Ambiguo Contorto

Sono sceso da casa di Matilde perché avevo appuntamento con Dario. Almeno è quello che pensavo. O quello che volevo pensare perché da tempo tendevo a mentire per superare le insidie. O per meglio dire a allontanarmi dalla verità un po’ per volta. Come una spirale costruivo attorno un percorso scalinato che mi avrebbe condotto a quanto realmente ero. A quanto corrispondeva la mia personale verità assoluta, oggettiva dentro e fuori di me. Quanto risultato del mondo esterno e il mio universo interiore. Verso il paradiso ponevo la puntualità dell’io maturo raccolto negli altri, giù nell’inferno lo stallo in cui ero confinato. Legato sentimentalmente al passaggio della crescita, provvedevo con lentezza all’età di mezzo. L’età in cui sono poste delle strade da percorrere e tu ci giri intorno. Anzi giri intorno l’ambiente con superficialità di approfondimento e celere a spasso per l’isolato. Cagnesco ti aggiri attorno al palo noto, controlli la pipì altrui, vedi quanto si allontana da te e provi a inseguirla, ma a sera torni steso al balcone di casa. Almeno avessi guadagnato il caldo divano. Dall’ambiguità nelle scelte, la cura superficiale di piccoli progetti, tutti insistenti che ti rendono nevrotico giungi al prossimo passaggio. Fili la corda nel momento in cui tutti scattano al verde fino a non sapere quante volte ti hanno doppiato. Ad ogni semaforo, per nasconderti esploravi strade sconosciute, solo in quel momento, ti sei scoperto esploratore. Perdere tempo, stranamente ti spiaceva. Ti innervosiva. Rivolgevi parola e azione alla prima occasione. Mai così dinamico. Pensavi che il viaggio ti avrebbe cambiato, che i viaggi fossero liberi da ingombri. O quanto meno avresti fatto giri più larghi, non più lunghi. Lento ma senza perdere tempo. Quando credevi di avere talento per qualcosa in automatico ritenevi che fosse il grimaldello per raggiungere la verità. Forse la confondi con la felicità ma non è così. Conta raggiungerla. Non è neppure benessere. E’ presente. E’ liberazione che ti rende felice dell’ossessione. E’ l’ossessione la tua unica volontà di vita. Ma forse è l’ordine. Sei a un bivio? No, sei ambiguo contorto. 

sabato 16 novembre 2013

Il giorno dopo il medioevo

Voleva fare il bibliotecario ma era allergico alla polvere, apriva un locale ma era alcolizzato. Oggi lo scrittore non ha lavorato perché ha vissuto tutto il resto. La politica si è fatta dietro a un bicchiere, intimo fra gli spessi fumi sudamericani. Dal bar non scattavano denunce, se arrivava la polizia era per un posto di blocco. Quante camminate per sfuggire a un controllo. Abbassi la testa sconfitto ma in fondo non ti importa poi molto. Hai la testa libera sgombra, hai sbuffato fra i libri, hai starnutito di carta antica e polvere spessa. Adesso è finissimo fluire. La madre di piazza guarda il figlio e dice Ci sono tre tipi di donne Le puttane, le zoccole e quelle che volano, Hai mai visto una donna volare? Ecco, quelle non esistono; il cerchio si restringe. Ritorni sui tuoi passi, scorri la giornata trascorsa lungo la salita. Quell’affresco non l’avevo mai visto e poi Guarda che Arco. Chissà perché le trame sono poi così diverse. Guarda la reggia di Salerno, c’è ancora una torre, la pietra come la polvere a volte si accumula e rimane li a pendolare finché l'allergia non arriva. Per guardare mitigato il suo colare, il tempo per raccontare lento, per smettere di guardare in pace. La fontana l’ha disegnata VanVitelli, il muschio è l’incuria ponderata. Il bancone l’ha disegnato lui, lo slogan l’ha fatto lui, la chiacchiera col commerciante è fatta. Conosciamo club di genti. Facciamo politica della notte fra dialettali risate e chimere disegnate a forma di partito, di storie incrociate, nomi, cose e la piccola città a portata di cognome che come diceva un vecchio saggio nolano: di giorno è la mia città, di notte la città è mia. Potente e sconosciuto navighi fra i vicoli vociati come messe, fra castagne di vino e amari a luci basse. La serata sta per cominciare. Dopo la poesia, c’è un nuovo viaggio sul taccuino, un libro da esplorare, una bicchiere dà sollievo. Ha inizio qui: il giorno dopo il medioevo.

martedì 12 novembre 2013

Piume d'oca

Arrugginito dalla politica della notte. Mesto dirigi la socialità altrove. Ancora un giorno di militanza fra cantine asciutte e orzo d’autunno. Quando s’ha fatto l’inverno, non ci davamo più bastonate, la legna serviva a scaldarci. Lungo le pieghe della settimana, scordammo quale fosse casa, tutte le porte erano plausibili. Mi dici Separiamoci. La giacca ce l’hai, il resto no. E' il tempo di andare.

Girovago bussi alla ricerca di un pasto, con lo zaino leggero lasciato in qualche feritoia in piuma d’oca d'occasione. Non ricordi in quale. Col piatto rivolto al petto, quando s’apre la porta, lo porgi caritatevole. Sorridi scorrendo la dignità. Ogni buona donna apre con calore, madre di cui ti scordi alla svelta, quando il naso inspira la sottile vestaglia cadente, ti culli nelle braccia larghe e petto infuori.


Dopo il pasto ami la crema rivoluzionaria del limoncello di campagna. Arrotoli il tabacco, pulisci i piatti, ti pulisci il piatto. Lo raccogli fra gli altri. Saluti. Ti chiedono Vuoi dormire? Rispondi che Vuoi sognare ma non hai sonno. Anche oggi hai mangiato, forse dormirai sereno, chissà dove. Ti basta un pasto al giorno, meglio la sera così lo stomaco non farà capricci. Così non ci saranno incubi e non avrai bisogno di madri. Potrai essere solo con una donna qualunque. Ma un altro giro di stelle è iniziato, non ti immagini quali piume d'oca ti reggeranno. Non puoi tirarti fuori. Non hai paura. E' tempo di andare. Forte Ferro sei pronto per salire nella politica della notte. 

giovedì 31 ottobre 2013

Compagno di sbronze

Veniva da lontano. Almeno per tutti. Forse, lui, fra noi si sentiva di un altro paese. Forse non lo era. Ma era potenzialmente di qualunque luogo. Aveva mille posti cuciti sul corpo. Una sola patria. Non poteva dimenticarla, sentiva il bisogno di ribadirlo sempre. Il suo lembo di terra, così piccolo e così povero da abbandonarlo. Ma un giorno tornerà, ripete alla fine di ogni discorso. Mi diceva che un tempo è stata ricca e valorosa. Che i suoi antenati hanno salvato i miei. Che noi non lo possiamo sapere perché i libri di storia hanno ben altri impegni che spendere pagine e pagine, lezioni e bimbi sonnecchianti da svegliare.

La sua bandiera ha una storia di lotte. Vorrei dire lo stesso, ma non ha importanza, forse non corrisponde al vero. In fondo, preferisco ascoltare i suoi occhi luccicanti. Un tempo non è stata ricca la sua terra però non dimenticava mai di dire che era stata di tutti. Anche con poca legna e tanto freddo. E che si amavano nella miseria. Che nessuno era solo o senza lavoro. Che tutti andavano a scuola. Che il suo papà lo scrive sui libri e il suo nonno, fedele al baffo sovrano, scriveva poesie e zappava la terra. Come mio nonno, che, però, non sapeva nemmeno leggere. Mio nonno sapeva fischiare. 

Quando beviamo, io e lui, quello che veniva da lontano, siamo così diversi da parlare per ore. Da condividere l'esistente. Da bere per ore. Dice che da lui si beve molto. E che bevo come i suoi avi. Il rito dei figli delle mani sporche si incontra. Mi ripete che un giorno andremo insieme nella sua terra. E io, ripeto diretto, che sarà a tavola col sangue mio. Presto sarà alba amico mio. Ti aspetta un viaggio lungo e pericoloso. Quando tornerai avrai tanto da raccontarmi, avremo le mani sporche dalla terra del bicchiere, come al solito in un vicolo metropolitano.


Fuori capitolo: la felicità, in fondo è realizzazione: vedere la realizzazione materiale di quanto immaginato. In fondo, la bellezza non la trovi, la cerchi..

giovedì 3 ottobre 2013

Cronaca di una rissa non scritta



Anche stasera c’è stata una rissa. Ancora una volta. Ancora una volta non è la tua. Per dirla giusta: non è quella che vorresti. Stai lì, in silenzio a chiedere ancora una volta qualcosa, magari un semplice filtro. Rolli il tabacco distratto, pensi, ti domandi. Una volta acceso fai luce, il silenzio artificiale che hai appena costruito nella mente. Le strette boccate di fumo ingialliscono rapido il filtro, pochi tiri e nervoso spegni quanto già mozzicone. La cronaca è questa, oramai sei abituato, allenato. Istinti, impulsi da una parte; la mente da tenere lucida è fondamentale. Ci vuole equilibrio, non te lo ripeti più, è dentro e fuori di te. Pensi ancora un po’ fuori dalla notizia, la perdi per un’istante e cerchi il motivo per cui fumi. Chissà se fumi per vizio o per scaldarti. La lingua, di certo, è sempre calda, pronta a chiedere informazioni biografiche, a raccogliere resoconti dell’accaduto, a edificare narrazioni in pieno dramma meridionale.

Mentre provi a ricostruire la dinamica dei fatti nella mente, col taccuino nervoso che aspetta la fuoriuscita di quanto alla svelta hai appiccicato in mente, arriva una pattuglia della polizia. Qualcuno si chiede perché non sono arrivati i carabinieri, d'altronde, il luogo del fatto è dietro l’angolo rispetto alla caserma. Poi una dietro l’altra lo strillo di “a tutte le unità” porta con sé ben sei pattuglie dei carabinieri.

La prima auto si ferma: uno Striscia Rossa con lo sguardo dal finestrino appena abbassato controlla se in terra c’è la presenza di sangue. Il secondo carabiniere apre lo sportello dell’auto e fa leva con le braccia rigide sul tettuccio per stare su.

L’uomo, uomo di sistema, uomo di mondo, uomo che ne vede di tutti colori, chiede quale colore di pelle avessero i rissosi, di che razza si tratta. Qualcuno gli risponde dei bastardi, qualcuno dei pit bull, qualcuno scherza e dice un carabiniere.

La rissa, non fa notizia, o meglio, non fa notizia per il quartiere, nulla di nuovo, nulla di forte. Nulla a che vedere con la piazzetta. In piazzetta nessuno chiede informazioni sulla razza, lì, la razza è una sola. E comanda.

Non puoi scriverci un pezzo ti ripeti nervoso, sarebbe cronaca, sarebbe noiosa, sarebbe il solito. Non puoi romanzarla e non puoi raccontarla. O forse sì.

mercoledì 18 settembre 2013

Il cielo d'estate s'era guastato


Il cielo d’estate s’era guastato. Era una sera di settembre. L’estate, da sempre, prima o poi si rompe. Una serie di lampi sancivano il passaggio dal costume e il mare alle cartellette e gli zaini per la scuola. La città respirava ma nessuno aveva l’ombrello. Non c’erano anziani per strada, o almeno quelli con le cicatrici o le ossa sensibili. I segni, come le cicatrici e le ossa usurate, sono profetici, raccontano la storia del futuro e non dimenticano il passato. Tutti i restanti in strada si rifugiarono sotto i portici o nei bar. Non c’erano molte persone.

Una coppia di ragazzi stretti con la mano corre verso l’auto.

Hanno poco più di vent’anni. I vestiti zeppi d’acqua si sono allungati al punto da ricordarsi quando ancora bambini giocavano a indossare i panni dei grandi. Quando piove anche i bimbi grandi non fumano per paura che la sigaretta si spenga. Entrano in auto. Accendono l’aria calda e respirano forte per il guizzo. Hanno i capelli scuri piangenti, la pioggia è dentro di loro, cola sui sediolini di pelle.

Lei ha il trucco sfatto, distesa fissa il tettuccio sollevata ma inquieta. Lui ha freddo. Le mani hanno delle rughe sulle punte interne delle dita, per un istante ride vedendosi invecchiato. Si volta con lo sguardo lungo i sedili posteriori, trova un telo da mare utilizzato il giorno prima sulla spiaggia assolata. Lo raccoglie e glielo porge per asciugarsi. Lei, che s’era persa a fissare il tettuccio, lo raccoglie e con premura asciuga i capelli di lui, gli stropiccia il capo, lo riconosce come quando erano bambini.
Lui, le pulisce il viso dal trucco scollato, si sofferma per un istante sulle lentiggini. E’ come se non fossero mai cresciuti. Lei, gli toglie la maglietta a righe orizzontali azzurre e bianche, che come un acquerello sono diventate di un solo colore. Gli asciuga il petto, la schiena e poi l’addome. Sente il suo corpo come nuovo. Poi leva da dosso il vestito bianco ormai trasparente e i pesanti stivaletti marroni non più fuori stagione che ama tanto.

Lui, le sfiora le labbra con un dito, quasi pensa male ma lei lo conosce bene, fruga nella sua incertezza e la blocca con spesse labbra piggianti sul suo labbro inferiore. Lenta sfiora il volto, sembra nuovo di pioggia. I lineamenti del viso sono rigidi, fissi nella mascella scura e nel naso storto. Lei, è diventata donna. Ha la pelle soffice e il corpo da ballerina. Il viso ha le prime rughe al lato degli occhi, dice che piange molto e che spesso ride. Lenti, si scoprono adulti. I vetri si appannano con cautela e la pioggia, che picchiava sul tetto, addolcita si posa sottile prossima alla fine.

“E’ tempo di andare” dice lei.

Lui acconsente con un cenno e un sorriso formale. Gira la chiave nel quadro di accensione mentre spera che il motore sia troppo freddo per avviarsi. L’auto parte, come se mai avesse piovuto. In pochi minuti le strade si affollarono di nuovo, sembrava si fosse guastata l’estate e invece era l’aria da cambiare. 

La pioggia era quello che ci voleva.

Giunti alla stazione si abbracciarono forte. Il trucco era di nuovo scollato, il viso un po’ meno adulto. Lei scese e si diresse al binario. Lui non l’accompagnò, non lo faceva mai. Diceva che presto l’avrebbe raggiunta per sempre. Come ripeteva ogni anno.

venerdì 13 settembre 2013

Quando amavamo, ci facevano l'elettrochoc

Fra le mura bianche colte con rigore simmetrico, maniacale, c’erano quadri spasmodici di cervelli tumefatti, liquidi, spappolati nella miseria somatica. Qui ho conosciuto Gerico. Una pozza di acqua infettata ci ha battezzati tutti. Malformati ci catturarono tutti nelle notti sumere.

Colpa del viso sfatto: il frenologo del capitale rapì la ragione di mio padre. Quando scrivevo protendevo il mento avanti, quasi a frugare, col naso schiacciato fisso sulle miserie del labbro superiore smosso. Col tempo i denti migrarono fra l’inchiostro di chi vive ai margini. Il muso si spostò, il viso cambiò. Il naso cosparso di polvere da sparo. Le scapole pressate nei continui piegamenti in cerca di tartufi per la ragione che motivassero i fucili; la guerra giusta: il quotidiano scalare.

Bevevo acqua per dimenticare i crimini dei ribelli, le armi chimiche delle infermiere, per nascondermi dalla caccia. Deglutivo pillole comportamentali in ore stabilite. Nulla scomposto. Tutto qui: quando amavamo, ci facevano l'elettrochoc perché, dicevano, un pazzo non deve amare nessuno.

Il messia era accaventiquattro, cigolava nella paglia di una grotta ricoperta dal vuoto. Un pazzo che urlava al cielo tutto il suo amore in Dio. L’arido trascinava i pensieri nell’immenso divino. Campo di concentramento involontario. Avevo i tratti somatici tumefatti dallo scrivere. Lo ripeto. La colonna vertebrale incrinata, curva, cigolante come le porte di pietra della sua grotta. La madre aveva destinato Cristo fra noi pazienti di Dio.

Dio camice bianco.

Stasera tocca a lei. Stasera tocca a te. Determina le nostre vite, si insinua fra le nostre debolezze, uccide i figli che mai avremo. Non dormire stanotte, non ho voglia di svegliarti, me lo ripete senza guardare gli occhi miei belli strafatti, giuro senza pianto. Prosegue dicendo: prega, prega fino all’impossibile e sarò lì con te. Immagina, non puoi. Tu sarai mia, sacrificio settimanale, programmato in turni, quando sarai finita, esaurita, sarai sterilizzata, non metterai più al mondo altri pazzi.

Per me scriverai versi indimenticabili, avrai la tua Palestina, a me non resta che fare Dio. Interrogami ogni giorno sulle morti delle vicine di letto, sui malanni al tuo sesso, ad ogni assenza di risposta ti cullerò nel silenzio, nel mistero. Sei mia. Paziente che non sei altro.


Pausa caffè? Chiede l’infermiera. No, c’è molto da sbrigare: avanti il prossimo.

Una volta fuori di lì, come Gesù mi sono ridestata mentre lui gridava e dalla grotta echi uscivano privi di intervalli, sovrapposti fra loro. Ho avuto la mia resurrezione, la mia libertà, rifiutando le cure, le medicine. Appassendo come un fiore ho rinunciato a un Dio cattivo perché noioso.

Ora, prima che il telefono si rompa ti lascio una poesia.





sabato 7 settembre 2013

A Quattrocchi pari: una festa alla rovescia


Quartiere d’arnese prendi la bici, corri in paese, abbraccia la città borghese.

Scortese come sempre, come piace, con cameriere, artisti e baristi. Silenziosi in viola, pensione pussa via, lascia stare la parrucca, le tesi e la provincia della pipa.

Tre bicchieri verdi: nausea, gusto, allucinazione. Altri tre Easter color color niente. Acchiapparello - Che bello e non guardarmi così mamma bancone - L’acqua fa male. Chissà quanta acqua per eliminare.

Estate pura, dai graffi sulle ginocchia, i dadi, i ciclisti ubriachi e gli equilibristi del sorriso. La stanza capitolina persa fra finestre riposanti. 

Approfondisci con gli occhiali neri di Pasolini; disagiato. Fremo con le vertigini scure di Calvino.

Respira sottotono - I’m the wrong sector of the right side - Ossessivo lo ripetevi carogna di un vinaiolo, romanzista in borghese, fenglese ribelle, ma quando l’hai letto? Quand’ero a letto.

Quando ti innamori divori libri senza occhiali. Quando ami, ti stabilizzi, leggi opuscoli gialli senza dentista. Povere madri senza preti. Ma che bella fiaba, falla finire male, schiacciale gli occhi col fiato degli dei balordi: lo spettatore resta con te.

Conte del brindisi di una festa alla rovescia, senza te, senza noi, in silenzio ti insinui fra case: sei il benvenuto. Sgraffi il muro delle vecchie osterie: urbe, urbe, urbe: urca Campana. Graffita underground, esploratore dei se, navighi e viaggi nelle ipotesi con i potrei, con i vorrei. Uno è poca roba. Servono tavoli e commensali.

Il quadro dove è nascosto? Un dialogo. O vivi o scrivi? Hai ragione: ineguagliabile milionetrecentomilalire. Sei ore. Sono senza soldi. Epigrammato.

Fantascientifico maestro, fammi ridere ancora un po’ con il maestro dell’Havana per caso, raccontami ancora di qualche fascista, fallo tu che puoi. Aiutami a amare le nere-ricce-giocose. Giochiamo ai cavalli (lo ripeterò), ti mostro la scorza, lascio la pelle su graffi di felicità.

Ancora un bicchiere, non voglio spinte né prole, un sussurro ancora. Ingrana marce marce che marciano inesistenti sul tuo cinquantino, schiarisci gli occhi e sogna ancora un po’, scruta nel passato fibroso e magmatico. Ctonio. Ctonio. Parole sconosciute emergono laviche, non leggere, sono devoto al sensibile, sono citazioni, odiamole insieme. 

Qualcuno ama, sottovoce, senza cultura, con il Cilento in tasca, con Easter sarcastica, con il suono sparviero, con i fuori-uomini-burocratici-supersonici degli “schiacciami gli occhi”, con i fuori percorso, con i filtri critici salvavita Edizioni, con le Istituzioni.

Silenzio in sala, lo spettacolo sta per cominciare, spegnete i cellulari, ultimo schizzo, viola, burocrazia pascoliana, confusione fuori e dentro, felicità, ansia e respiro, e ancora poeti di strada: fammi sentire il mare morto fra i lupi di periferia.

Anarchico sei, ingenuo ti credo quando dici: andiamo a giocare i cavalli, guardiamo il nome più stronzo che c’è e asfaltiamo le stagioni con letterine natali e consensi monetari zieschi. Senza partita iva.

C’era un critico e poi… gli avvocati compagni, il papillon fascista, Bologna e Firenze, Antipitti e degrado targato Bo, le vacanze, i cocomeri scuartati per farti fresco polacco e indegni bambini, l’alluvione, la protezione civile dei sensi e pannocchie molotov feltrinelliane.

Un diario, il narcisismo e così via. Facci una lettera, dicci come la diccì bravi però poi, facci sentire piccoli, come delle statuine collodiane che – sotto i sonni dei lettori - prendono carne e si scusano all’urto con i passanti turisti di turno.

Fuori capitolo: I Division gioe, maicovschi, maiale, malfatto, come la suora Samantha mi innamoravo di tutto correvo dietro i cani albini depressi. Rap.

domenica 1 settembre 2013

Fuori percorso: La Fossa

I suoi pensieri vagano, nulla di profondo, e, lì sdraiato tarda ad andar via. Sembra che l'ombra dei rami proiettata sul suo viso lo rilassi molto.
Ha le mani rovinate, mani da operaio, anche se capaci di infinita precisione, il suo piccolo "passatempo" la richiede. La luna ormai ha fatto capolino dietro le nuvole ed è ora di completare l'opera.
Si alza, pulisce il machete da quello strano liquido, riprende la pala e la batte sul terreno smosso, compattando la terra con ossessiva accuratezza.
La fitta vegetazione lo cela dalle luci del vicino centro commerciale - Quella sera quel mega negozio era particolarmente frequentato da famiglie con figli.
Un tratto la pala produce un rumore diverso battendo il terreno - "tocc".
Il robusto figuro illuminato dalla tagliente luce lunare si blocca. Si china verso la terra e scorge un moncherino che fuoriesce dalla terra.
Qualcuno se ne sarebbe potuto accorgere e non ne sarebbe certo stato felice - Doveva rimediare. Prese le sue arrugginite tenaglie e lo recise, scagliando poi lontano il moncherino.
Aveva completato la sua opera - "è ora di andare" pensò.
Raccolse tutti i "ferri del mestiere" e li caricò nel retro del suo furgoncino.
Una volta seduto al volante stette molto a riflettere su ciò che aveva fatto.
Girò la chiave nel quadro e, un attimo prima di sparire nella notte disse: "la prossima volta se la travasa da solo la buganvilla Luigi".

uno scritto notturno dell'amico Baffo
Chi è Baffo?  Continua il percorso!

mercoledì 31 luglio 2013

Il cosmo e il tic tac


Germe. Microbo. Dappertutto esiste l’inizio prima ancora di esistere un qualsiasi essere vivente. Anche la sala d’aspetto di un dentista. Tu puoi pensarlo. Un cosmo nel cassetto, per farlo esistono una serie di istruzioni. Non aspettarti un elenco, aspettati altro. Aspettati il nulla da cui è tutto ciò che predomina l'esistente. Che morde l'esistente per un risveglio caino. Barbaro. Può essere più semplice di quanto pensi. Basta ipotizzare. Basta. Ipotizza un segno. Un segno che costruisce un prima e un dopo, un qui e un lì. Spazio, tempo. Ma c’è di più: quantità, qualità. Ancora: storia, geografia. Essente perché non nulla. Il segno genera il tuo mondo. Il segno ha generato gli uomini. E le donne. Un ontologico sistema predomina quello filologico. Ma che dici? Procediamo con ordine; sparso. E' dallo sparso, confuso quanto ordinato punto. Un punto in cui siamo tutti, il tutto e pure le signore polacche delle pulizie. Tutti. Pure chi non ti piace. Una coincidenza mondiale per dirla con le parole degli uomini. Il lato B della cassetta rovinato. Il bacio non dato. Il tutto che non c'è stato. Forse non l'hai ipotizzato. Proprio da qui inizia la mia storia, il mio luogo, la mia filosofia; l’amore. Perché di amore che si parla quando c’è un inizio, perché di amore si sogna che non ci sia fine. O che la fine sia la morte. Ecco la morte. La nascita. Tutto ha inizio e fine in noi. Quell’orologio che rintocca allo stesso modo fra un secondo e il suo omonimo successivo per noi è tic-inizio e tac-fine. In realtà è toc. Ad ogni modo fra il tic e il tac, in quel lasso di tempo si compie l'esistenza, l'inizio e la fine sono utili e necessari per tutti gli intrecci, i romanzi; sono armi sfruttatrici deploranti di libertà. Quell'orologio contraffatto nel taschino del padrone della fabbrica di Manchester nel 1845. E’ il nostro paradigma apocalittico. Tutto ha inizio e fine. No, tutto deve avere inizio e fine. O meglio tutto deve avere un inizio e una fine riconoscibile secondo i parametri di valutazione comuni. Che confusione. Proviamo con qualche esempio: magari per i più allenati, quelli che trovano somiglianze, parallelismi, i domatori di analisi,  ciò può essere un circuito che si ripete, un circolare storico localizzato in una analogia simmetrica. Qualcuno per orientarsi, o per gioco, ha inventato la metafora. Ha elaborato l'atmosfera, la gravità. I cani col naso all'insù fiutano la polvere di stelle o tartufi lunari. Qualcuno ha costruito un mosaico con similitudini per non sperdersi ed ha creato arte ed arterie, diramando l’uomo in modo simile in ruoli e giostre speculari su cui fare commedia o semplicemente un giro. Qualcuno è salito sulla luna, per pescare latte e formaggio. Qualcuno ha ballato con il sole, prima che le sue ali bruciassero. Qualcuno ha sorriso nel ballo e si è innamorato, quando è finito il gioco ha pianto, poi la giostra ha ripreso a girare, bastava pigiare un bottone, non uno qualsiasi, ma quello giusto. Qualcuno, invece, ha preferito vivere la propria esistenza come un fiume, così per gioco, per rivelazione, per immanenza. Ha colto l’istante inespresso fra tutti ed ha risposto alla domanda esatta. Ha vinto, scordandosi i romanzi, godendosi il piacere di una commedia priva di un inizio e di una fine. Ha rinunciato a Dio, fatto a pezzi il suo cognome. Ha pensato il cosmo, per una fuga d’amore, l’ha realizzato. 

sabato 20 luglio 2013

L'amore scontato



Stupirsi per un particolare. Occhi frastornati. Stornello visivo. Occhi farfuglianti in attesa. Finalmente una risposta. Lacrime gelate, un torrente collinare scava fino a valle. I tuoi zigomi albicocca divisi dallo scorrimento. Silente prosegue fino a cascare rapido quanto il lento sfiorarsi ultimo con la pelle. Un solco magro. Cicatrice. Un istante, nessun cigolio nella macchina, al momento. Previsto in tutti, agitato comune, arrivo singolare. Guardarti dallo specchietto dell'auto. Preparazione. Tranquilla, dopo un liquore generoso, verde e artigianale, mi appari più bella. Respira muta, nascosta fra foglie: quando ti osserva: ti ama. Empatia nuda, notturna, sorrisa. Un bacio e la luna. Lo spreco di parole. Dalle auto osservano. Tranquilla, mi chiedi di amarti e lo farò, perché risparmio, perché con l’odore del mare trovo il coraggio. E’ noto che, con pochi euro, si può anche questo lucciola innamorata. L'amore scontato.

giovedì 11 luglio 2013

L'orfano romantico

Il chiasso dello starnuto la scuote e un calzino le cade. Di giù l’attendono i ragazzini del quartiere, lei è nuova qui, come suo marito, l’uomo mucoso. Per anni all’interno 7, via degli ausoni 78 c’’ha vissuto una puttana, era molto generosa, per poco, era la specialista dello svezzamento. L'abitudine è così, e lei, la donna del calzino, presa a stendere i panni, è molto bella. 

La puttana s'era invecchiata e aveva fittato il suo ufficio a una giovane coppia per dedicarsi al parcheggio abusivo verso Flaminio. La puttana, però, fino alla pensione del parcheggio aveva mantenuto i suoi standard prestazionali. Il prezzo col tempo era sceso. Per quanto sono a conoscenza l'ultimo prezzo era di 30 euro compreso di gelato prima e una Marlboro dopo. Non era bella, per questo era desiderata. 

La prima volta è brutta per tutti, al di là di libri-film-canzoni, e nessuno vuole sfigurare o essere l’ultimo sfigato ancora vergine del gruppo. In più, lei, somigliava più a una madre che a una donna ma nessuno ha paura della progenitrice a 13 anni, Freud escluso. Ma i ragazzini che ne sanno della cocaina, di Anna e della madre della psicanalisi. Essere ragazzini è questo. Loro, sono di borgata, pensano a togliersi il dente senza credere più alla fatina. I denti come il sangue devono cadere quando passano le bande vicine-nemiche-cugine. Per loro il tempo di crescere è racchiuso in semplici passaggi: sesso-sigaretta-sangue. 

Lei, però, non era una puttana, tutt’altro. E io, non ero un ragazzino, almeno non come loro. Lei, però, aveva marito, non era il massimo, anzi, era il più classico italiano medio: gambesecche-panciapelosa-calvoriportato e tanto pallone, o meglio, tanta As Roma. Lui, il calvo secco chiatto romanista, aveva poco più di quarant’anni per l’anagrafe. 

Lei, la donna di cui sono innamorato e con cui perderò la verginità, insegna letteratura inglese, ha gli occhi di mare con tutti gli scogli perimetrali e le alghe a tappeto, ha una figlia che mi ama ma è poca roba davvero. Secca-lentiggini-occhiali, semplicciotta, timida e noiosa. Ovviamente l’apparecchio e tanti complessi di chi è succube dell’ortopedico. Standard oleografico di mediocrità prepuberale. 

Lei, la madre, ha il mio cuore, come un voodoo child al primo strizzo l’infarto mi pianta in terra sull’asfalto abrasivo d’estate e fangoso d’inverno. Non ci sono più le mezze stagioni; dell’amore. Gli altri quando seppero che l’avrebbero avuta come professoressa hanno smesso di osservarla e hanno aspettato in fretta settembre e al minimo cenno su di lei si tiravano il pacco con le mani. Io, ho afferrato il pacco di libri invece. 

L’estate l’ho trascorsa con Shakespeare, anche se è difficile da pronunciare, l’ho letto. Lui, è il padre dei romantici, per noi orfani tra l'altro c'è anche Charles Dickens. Ma la mamma non manca quando penso a gli occhi di lei, gli occhi suoi belli, il maestro pensava a lei quando diceva che sono stelle forti al punto di far sempre giorno. 

Il  balcone avanza furtivo, lontano dal marito, prossimo al cuore. Mille volte buonanotte amore mio. Mille volte cattiva notte vorrai dire senza te. Non vedo l’ora che l’estate finisca, che settembre sia, che il fiocco e la divisa della scuola siano belli e stirati dalle suore nel convitto, che i compagni di scuola tornino dalle vacanze con le foto delle mamme, dei papà e delle nonne da incollare sul mio muro bianco. 

Prendete tutto lo spazio che serve per i vostri collage estivi, non ho nulla da aggiungere tanto io sono forte come Antonio, Cleopatra non può far altro che cedere fra le braccia mia muscolose-forti-virili.


lunedì 10 giugno 2013

Piano piano

Quando colpiva sui tasti le mani tremavano. Non sbagliava un colpo, era sempre alla ricerca della nota giusta. Sapeva della battuta recitata bene, un nero e poi un bianco e poi via a ritmo sincopato dava un colpo alla serata per tutti. Magari avrebbe conquistato, lei, se solo avesse pensato che da qualche tempo le donne lo cercavano per i locali della città. Si diceva un gran bene di lui, si era sparsa la voce di orgasmi, discoteche di musica classica, jazz, fusion, country sui tavoli.
Era nuovo è già l’eco delle sue melodie, delle note giuste al posto giusto al momento giusto rintoccavano nell'aria. Se gli facevi notare che quelle due americane al tavolo, bionde quanto turiste, lo mangiavano con gli occhi quasi sbagliava una nota ma timido abbassava la testa e tornava a marciare. Dimenticava in fretta e ligio recitava umano e delicato sui tasti, li accarezzava come delle cosce vergini.
Dopo due giorni senza giocattolo, ci adoperammo per trovargli un piano. C’era questo locale a sinistra, vicino le mura, dove era possibile suonare ma girava voce di un proprietario dai modi selettivi e di poche parole. Due pezzi di base per chiunque ma se qualcosa non lo convinceva chiudeva il piano senza troppi clamori. Nessuno protestava, chiunque sapeva le regole e tacito le rispettava.
Lui, guardingo entra nel locale, noi alle spalle puntiamo al bancone. Lui con passo a contornare il perimetro del locale studia i tavoli, i presenti, empatico raccoglie i sudori della sala. Un paio di partite a scacchi, il biliardino coperto e una cartomante in attesa dell’atmosfera per adescare e suggestionare al meglio i clienti. Il piano a dirla tutta non era un granché: era scordato in diversi punti e le ottave basse e quelle alte erano mute. Gli piacevano i piani toccati da mille mani, sentiva tutti i suonatori precedenti, sentiva le sensibilità del tocco trascorso, adescava i punti rovinati, consumati e li rigenerava, amava l’idea di conoscere in uno sfasamento temporale le anime dei passanti: si sentiva meno solo fra tutti loro.
La sala applaude e il proprietario chiude subito l’offerta sulle birre del giorno, ha capito che c’è puzza di grana, che qualcuno sarebbe entrato perché le note che suonava uscivano fuori e riempivano la strada come l’odore dei laboratori di pasticceria quando si fa alba.
Lui, senza accorgersene, aveva mille donne, due fra tutte amavano ascoltarlo, avrebbero litigato per lui, forse si sarebbero conciliate per lui. Erano bionde quanto turiste, erano americane. Noi, in attesa di una sua mossa, parlavamo delle parole giuste sulle note giuste, pensavamo ai cantautori ma era chiaro che non ci fosse molto da dire: la scena era sua senza che lo sapesse e se l’avesse saputo sarebbe scappato. Gli mostriamo le bionde, ora ci odia, scappa ma sappiamo che quando lo rivedremo non proverà più rancori, sarà un piacere offrirgli da bere, dicono che l’alcol lo fa parlare, fino ad allora: cerchiamo le parole giuste per raccontarlo.


Ti va di ascoltarlo? Fahien improvvisa!



venerdì 19 aprile 2013

Immigrant child


Piccolo. Abbastanza per passare fra due sbarre. Grande. Di un cuore puro e maldestro. La memoria è già dolore, non serve. Quando parla adotta spesso il futuro, non gli appartiene ma perché gli altri lo capiscano si impegna però non lo sa scrivere o non vuole. Piccolo. Da dire che una parola lunga sia il treno, una accogliente la casa, una dolce la torta. Grande. Per dire "ti voglio bene" ai cani perversi, da rispondere a occhi chiusi. Piccolo. Perché le giostre siano grandi, amiche girevoli, altalenanti, dondolose. Perché siano il fortino da conquistare, il castello da proteggere. Per essere un indiano contro gli uomini bianchi, per ululare correndo, per sgattaiolare fra i tetti, per suonare con delle bacchette le lattine, per cantare poesie con una sola vocale. Piccolo. Ma non abbastanza da capire che la casa in cui vive è un’automobile, le case con le ruote si muovono e come il sole la notte ti riposi con lei. Grande. Per coprire i freddi e tremolanti uomini neri alla stazione. Piccolo. Da nascondere l’amore e la fanciullezza fra le persone segrete. Grande. Non ancora per sognare solo quando si dorme.

martedì 9 aprile 2013

Mutazione apparente


    I nervi tesi, a volte, lo sono per natura. Sale l'adrenalina, i brividi lungo la schiena, sei immobile, tutto si muove frenetico, asmatico, lo stomaco come inghiottito, raggomitola fra sé, rivoltoso. Evadono le birre e il breve pasto d’occasione senza rito, consumato rapido dopo il dovere quotidiano e prima del piacere. Eppure piacere non c’è, ti rivolti nervoso con le budella, senti il vomito in gola, nel naso, puzzi dentro, provi a distrarti dalle interiora, dalle viscere ribollenti del tuo vulcano interiore. Ti senti un ancora al collo, una palla di due quintali al piede e le ossa fibrose, sfatte, di vetro. Non controlli più il corpo, la mano trema mentre cerchi di distrarti con un manifesto per strada, conti le cicche in terra, pensi alle persone con cui hai fatto sesso e quelle con cui ti sei picchiato. Conti quante volte coincidono. 
    Provi a parlare, a dire qualcosa, al tuo amico accanto, ignaro di tutto, senti la voce doppia, strozzata, senza fiato, tossisci per stare a galla ma cammini, padrone di te continui a ridere alle battute, a fare cenni con la testa di approvazione, non vuoi che cambi nulla attorno mentre la rivoluzione ti occupa. Cerchi di riafferrarti, quell’ancora potrebbe aiutarti ma non vuoi fermarti, teorizzi una bussola per non sperdere la mente. Pensi agli algoritmi che utilizzi quando lavori, alla penna sfiatata da riesumare, allo zippo da ricaricare con il gas, agli amici partiti e mai più tornati, alle compagnie aeree che hai preso e ragioni sul fatto che tuo padre non ha mai volato. 
    Ripeti in mente i libri che hai nello zaino ma ti stressano quei foglietti sparsi all'interno di ognuno, i libri sulla scrivania ti placano anche se la polvere inasprisce il palato, le riviste in bagno da ritagliare ti danno noia, le copertine dell’Internazionale appese al soffitto ti portano a spasso e scodinzoli, i libri nello scaffale di tua madre ingialliti li ami ma non li leggi. Ti fermi su qualcosa di leggero, superficiale, come quel libro che ti diede tuo zio, quel brutto thriller scritto da un ingegnere ottantenne della Nomentana, una trama di intreccio, di giornalismo investigativo immerso in un intrigo internazionale da quattro soldi. Un padre da scoprire in chissà quale continente e un direttore bastardo. Pensi al cinema, all’ultimo film che hai visto. Ma le immagini si distorcono, ti appartengono: si proiettano fasci di luce che danno la forma dell’utero materno sul bianco pavido, il tuo nascere discreto e il respiro a suon di starnuti, le sigarette e la tosse di tuo nonno ansioso, ritrovi l’affetto smezzato, la paternità precoce e l’infantilismo proprio e privato. 
    E’ tutto in subbuglio nel corpo, tutto in ordine negli altri, la mente contaminata è un groviglio disidratato, non percepisci più il tuo amico, le sue parole sono nuvole che si sparpagliano intorno a te, ti accerchiano, schiacciano le tempie e si irruvidiscono come foglie d’alloro sul torace. Respira, senza fiato, respira, a perdi fiato, respira e smorza il fiato. Smetti di respirare e poi ricomincia. Qualche colpo alla schiena per abbattere, il tuo movimento è goffo, inciampi in una cabina telefonica, componi un numero su via Tiburtina. Chiami gli artificieri e l’esercito: se arrivano i primi forse ti salverai, con i secondi sarai Dio la minaccia, dominerai il mondo per la sola presunzione di esistere. Intanto, respira e prendi fiato, il destino avrà una targa pari e sarà ammaccato.

sabato 6 aprile 2013

Sciolto


Era una piovosa notte di marzo. Il cielo a singhiozzo emetteva scariche con secchi d’acqua sulla strada. Il ritorno a casa era liscio, slittante. Le buche del raccordo autostradale erano visibili solo in prossimità immediata. I vetri appannati lasciavano l’imprevedibilità di quel percorso fatto tante volte in passato. Le strisce bianche solcavano il tragitto ormai giunto a metà. All’entrata in galleria sai che sei a metà strada, che puoi lasciare le marce e procedere a folle fino in città sfruttando la discesa. Quando piove no. Alla fine della lunga galleria aveva smesso di piovere. I finestrini potevano essere abbassati, la strada è riconoscibile più che immaginabile. I fantasmi freddi della guerra accompagnavano l’uscita dal tunnel, un cuore congelato in cartoccio volava dal freezer dopo una vita e si scioglieva sulla strada e i brividi, e il sudore, si spalmavano fra l’asfalto terreno algido ceceno.
Era di proprietà mia personale medesima propria, un cuore donato e disgelato fra i respiri e i pianti neonati in un violoncello in una discarica, sfuggito al netturbino divorziato, raccolto dagli occhi intensi formica, dalla lavandaia avvolta nei cimiteri di ruggine e topi urlanti. Principessa di discariche interiori e madre noiosa sfatta dalla cimice infiltrata nelle viscere, si decompose anche lei negra col cuoregelo che l’avrebbe salvata. Una farfalla di latta vide tutto e si immerse nelle acque sotterranee, nel beep del morse, nel tic della lancetta, nel toc della porta, nel tuc dei fumetti, nella tac della figlia, nel cuore disgelato, disperso sull’autostrada fiume panta rei con le cicche erranti e le lattine ristoro schiacciate. Un groviglio sfilato fu l’intreccio nuovo, il mostro partorito dalle venature blu delle sue gambe schive, mai lascive, come chiese a mezzanotte.
New born. Un bruco scarafaggio disattento e malvagio, buffo e tenebroso, folle fra le folle, lucido fra i lucidi, stempiato fra le lune e ricco sotto il sole. Due giorni prima morì, rinacque nuovo ancora col cuore dal freezer, nudo al centro di un monte di rifiuti in una tensione celeste, fra i fumi obliqui sipario indiscreto, in un lampo elettrico anticlericale, guarda l’infinito, ha ancora due giorni per innamorarsi prima di morire, non parla quando è in missione, bacia le sillabe interiori altre. Il tempo di morire.

venerdì 22 marzo 2013

La festa è finita



Il cuore batteva a mille quando il portone sbatteva crudo. Un'eco spiazzava ancora i condomini nonostante gli anni di militanza. Ridevamo perché l’aria si esauriva, perché inalavamo il gas a scrocco dalla casa dal lato opposto del pianerottolo. Non chiamate i pompieri, lasciateli riposare. Era bello stare scomodi sui versi delle foto immobili come noi, dei video organizzati nelle notti mute e delle registrazioni fuoriporta. Era un sogno afoso quanto l’adolescenza, crudo come la maturità. Ci trovammo nel mezzo di nostra precarietà. Il passato si cancellava con il futuro scuro, vacante, obliquo nel vuoto. Il presente era estremo, eterno e immediato. Ci obbligava a vivere e morire in ogni istante per paura di non farcela, di farcela, di restare sospesi in un tempo medio in cui i nonni ci superavano e andavano a riposarsi sulle colline. Ora quelle colline un tempo vive oggi sono decrepite e già dimenticate sono delle metropolitane serie, aride, inefficienti, sporche e consumate.
      Passa tra 3 minuti, corriamo per l’ultimo treno sull’ultimo vagone con l’ultimo centimetro cubo senza appoggi per il futuro. E’ diretto dai nostri nonni, deportati e partigiani che abbiamo visto ai bar e non conosciamo, che amiamo per dovere, per il sorriso. E degli idoli, a loro sconosciuti, con cui cantammo le loro canzoni, ammirammo i loro quadri e recitando male le loro poesie. La loro vita è un abisso nella nostra memoria, una radice senza rami, il mondo ce l'hanno raccontato i cantapropaganda.
     Andiamo, la casa è libera, finalmente i nostri genitori sono partiti, forse non torneranno, intanto facciamo festa finché non siamo sicuri che arriva domani, vigili ed esausti con gli inutili occhi aperti. Ci incantammo a studiare e descrivere la potenza del fiume nel suo scorrere e pulirci di ogni ricordo invece di amare gli argini e la potenza creatrice della resistenza. Ci pulimmo con l’acqua prima dell’inondazione, senza conoscere gli argini pensammo che fosse una festa straripante quando era l’ora di fare pulizia per sopravvivere. La festa è finita. 

domenica 20 gennaio 2013

Le colline sono già più in là


Volevo ricordare al medico, allo strizzacervelli, al grullaio, allo #sfornapillolefelici e ai suoi seguaci, che le colline son già più in là, han preso il volo, il volo verso altri lidi, in un parto di cuore, nessun cesario, da queste parti c’è puzza di vecchio, non di antico. Ricordarsi della lista di accenti ganzi dritti e mirabolosi e fantasmagorici sempre supersonici raccolti in questi anni, nessun inca alla porta, suona solo la marmotta, quatta quatta matta matta, giuro non son pazzo, sono solo partite, è solo che non ritornerà non ritornerà più. Abbiamo speso di occasioni non rimpiangerle non rimpiangerle: mai. Voglio solo ricordarle che non voglio la cura ma il metodo, non mi curi, mi dica solo la natura dei miei sintomi, ho in mente di farci un libro, un film con nanni moretti nanni e woody sempre lui woody. Ho voglia di stalattiti, di stalagmiti, di stalle, di stelle, di chioschi a forma di trulli al colosseo, di negri illuminanti con un laser di color color neo. Non sono grullo ma strizzami, non curarmi ma indicami, come una formica patologico lavoro, come un uomo faticoso non adoro, come un adolescente più non sono, non mi innamoro, come un alieno mi inchino al poter dell’oro, non sono come loro, ma loro guardo e canto canto e lo faccio in un coro solo: le colline son già più in là, han preso il volo volo!