sabato 18 agosto 2012

La malattia


Avrebbe desiderato scomparire, sottrarsi al mondo della percezione e dei sentimenti. Teneva gli occhi chiusi per la maggior parte della giornata e quando li aveva aperti piangeva. Soffriva di una malattia che le moltiplicava le emozioni, quelle brutte. Ferita dappertutto a causa del dimenarsi continua e forsennato. Scrisse all'unico che l'avrebbe capita.

Se sogni vuol dire che dormi. Lo disse un saggio con l'elaborazione del pensiero lunga e con la risposta rapida. Gli occhi chiusi, erano chiusi per la polvere, per la fuliggine della brace celeste. Ardeva tutto intorno come un Vietnam interiore nel basso ventre. I sentimenti erano carne in movimento, astri di cemento, fiamme di Cristo. I sentimenti soffrivano con lei, le emozioni scappavano, teneva stretta a sé i tizzoni rimasti, bruciati, passati e idealizzati. Erano brutti, ma erano.

La malattia la cambiò. L'ostacolo divenne un trampolino, non tornò più indietro. Si superò, oltrepassò se stessa e fece amicizia. La natura ammalante si innamorò di lei e la rese forte. Una volta guarita, il muschio sul muro del cortile divenne il suo profumo. Il vento, la pettinò a sua somiglianza. Il sole, la baciò e la fece donna. Era in armonia, il salto nel vuoto fu la cura. Era in riso: il vuoto era un tappeto, con uccelli sostenitori alle estremità, pronti a dare lo slancio. Era madre, la malattia la rese viva e generatrice di vita. Era sana, grazie alla malattia.

lunedì 13 agosto 2012

Il dolore atavico


Da quant'è che soffre l'anima mia?

Sento emergere un dolore atavico, un proseguimento della narrazione umana e della sua esistenza. Sento l'eco di un mostro in una caverna, la spada medioevale nel petto e nella schiena. Provo a baciare una donna, prima di andare al rogo. Dovrei aprire gli occhi con egoismo: ricercare il mio dolore, non quello altrui. Ma così non è. L'emigrante scappa, il brigante lotta. Il partigiano affronta il dolore anche quando è più forte: vuole sentire tutte le fruste sul viso, i tizzoni ardenti sul braccio, i topi danzanti sul corpo,  i fucili di Dio e di Beethoven.

Da quant'è che vivo d'altro?

Da quando ho preso la penna, da quando tasto le fontane di sangue del petto. Da quando ho perso il cuore, o meglio l'ho regalato. Da allora scruto nei vostri occhi, nelle luci degli alberi, nelle pareti naturali, nei buchi d'acqua. Ho bisogno di osservare e percepire l'umanità più costosa, di sudare per fotografare gli istanti altrui di gioia. Oggi, non riesco a vivere, e milioni come me accettano il dolore e la morte anziché l'eros per vivere qualche attimo animale.

Mi chiedi - Come posso aiutarti? -

Raccontami una bella storia o ricordami di quando ti hanno ammazzato.