mercoledì 18 settembre 2013

Il cielo d'estate s'era guastato


Il cielo d’estate s’era guastato. Era una sera di settembre. L’estate, da sempre, prima o poi si rompe. Una serie di lampi sancivano il passaggio dal costume e il mare alle cartellette e gli zaini per la scuola. La città respirava ma nessuno aveva l’ombrello. Non c’erano anziani per strada, o almeno quelli con le cicatrici o le ossa sensibili. I segni, come le cicatrici e le ossa usurate, sono profetici, raccontano la storia del futuro e non dimenticano il passato. Tutti i restanti in strada si rifugiarono sotto i portici o nei bar. Non c’erano molte persone.

Una coppia di ragazzi stretti con la mano corre verso l’auto.

Hanno poco più di vent’anni. I vestiti zeppi d’acqua si sono allungati al punto da ricordarsi quando ancora bambini giocavano a indossare i panni dei grandi. Quando piove anche i bimbi grandi non fumano per paura che la sigaretta si spenga. Entrano in auto. Accendono l’aria calda e respirano forte per il guizzo. Hanno i capelli scuri piangenti, la pioggia è dentro di loro, cola sui sediolini di pelle.

Lei ha il trucco sfatto, distesa fissa il tettuccio sollevata ma inquieta. Lui ha freddo. Le mani hanno delle rughe sulle punte interne delle dita, per un istante ride vedendosi invecchiato. Si volta con lo sguardo lungo i sedili posteriori, trova un telo da mare utilizzato il giorno prima sulla spiaggia assolata. Lo raccoglie e glielo porge per asciugarsi. Lei, che s’era persa a fissare il tettuccio, lo raccoglie e con premura asciuga i capelli di lui, gli stropiccia il capo, lo riconosce come quando erano bambini.
Lui, le pulisce il viso dal trucco scollato, si sofferma per un istante sulle lentiggini. E’ come se non fossero mai cresciuti. Lei, gli toglie la maglietta a righe orizzontali azzurre e bianche, che come un acquerello sono diventate di un solo colore. Gli asciuga il petto, la schiena e poi l’addome. Sente il suo corpo come nuovo. Poi leva da dosso il vestito bianco ormai trasparente e i pesanti stivaletti marroni non più fuori stagione che ama tanto.

Lui, le sfiora le labbra con un dito, quasi pensa male ma lei lo conosce bene, fruga nella sua incertezza e la blocca con spesse labbra piggianti sul suo labbro inferiore. Lenta sfiora il volto, sembra nuovo di pioggia. I lineamenti del viso sono rigidi, fissi nella mascella scura e nel naso storto. Lei, è diventata donna. Ha la pelle soffice e il corpo da ballerina. Il viso ha le prime rughe al lato degli occhi, dice che piange molto e che spesso ride. Lenti, si scoprono adulti. I vetri si appannano con cautela e la pioggia, che picchiava sul tetto, addolcita si posa sottile prossima alla fine.

“E’ tempo di andare” dice lei.

Lui acconsente con un cenno e un sorriso formale. Gira la chiave nel quadro di accensione mentre spera che il motore sia troppo freddo per avviarsi. L’auto parte, come se mai avesse piovuto. In pochi minuti le strade si affollarono di nuovo, sembrava si fosse guastata l’estate e invece era l’aria da cambiare. 

La pioggia era quello che ci voleva.

Giunti alla stazione si abbracciarono forte. Il trucco era di nuovo scollato, il viso un po’ meno adulto. Lei scese e si diresse al binario. Lui non l’accompagnò, non lo faceva mai. Diceva che presto l’avrebbe raggiunta per sempre. Come ripeteva ogni anno.

venerdì 13 settembre 2013

Quando amavamo, ci facevano l'elettrochoc

Fra le mura bianche colte con rigore simmetrico, maniacale, c’erano quadri spasmodici di cervelli tumefatti, liquidi, spappolati nella miseria somatica. Qui ho conosciuto Gerico. Una pozza di acqua infettata ci ha battezzati tutti. Malformati ci catturarono tutti nelle notti sumere.

Colpa del viso sfatto: il frenologo del capitale rapì la ragione di mio padre. Quando scrivevo protendevo il mento avanti, quasi a frugare, col naso schiacciato fisso sulle miserie del labbro superiore smosso. Col tempo i denti migrarono fra l’inchiostro di chi vive ai margini. Il muso si spostò, il viso cambiò. Il naso cosparso di polvere da sparo. Le scapole pressate nei continui piegamenti in cerca di tartufi per la ragione che motivassero i fucili; la guerra giusta: il quotidiano scalare.

Bevevo acqua per dimenticare i crimini dei ribelli, le armi chimiche delle infermiere, per nascondermi dalla caccia. Deglutivo pillole comportamentali in ore stabilite. Nulla scomposto. Tutto qui: quando amavamo, ci facevano l'elettrochoc perché, dicevano, un pazzo non deve amare nessuno.

Il messia era accaventiquattro, cigolava nella paglia di una grotta ricoperta dal vuoto. Un pazzo che urlava al cielo tutto il suo amore in Dio. L’arido trascinava i pensieri nell’immenso divino. Campo di concentramento involontario. Avevo i tratti somatici tumefatti dallo scrivere. Lo ripeto. La colonna vertebrale incrinata, curva, cigolante come le porte di pietra della sua grotta. La madre aveva destinato Cristo fra noi pazienti di Dio.

Dio camice bianco.

Stasera tocca a lei. Stasera tocca a te. Determina le nostre vite, si insinua fra le nostre debolezze, uccide i figli che mai avremo. Non dormire stanotte, non ho voglia di svegliarti, me lo ripete senza guardare gli occhi miei belli strafatti, giuro senza pianto. Prosegue dicendo: prega, prega fino all’impossibile e sarò lì con te. Immagina, non puoi. Tu sarai mia, sacrificio settimanale, programmato in turni, quando sarai finita, esaurita, sarai sterilizzata, non metterai più al mondo altri pazzi.

Per me scriverai versi indimenticabili, avrai la tua Palestina, a me non resta che fare Dio. Interrogami ogni giorno sulle morti delle vicine di letto, sui malanni al tuo sesso, ad ogni assenza di risposta ti cullerò nel silenzio, nel mistero. Sei mia. Paziente che non sei altro.


Pausa caffè? Chiede l’infermiera. No, c’è molto da sbrigare: avanti il prossimo.

Una volta fuori di lì, come Gesù mi sono ridestata mentre lui gridava e dalla grotta echi uscivano privi di intervalli, sovrapposti fra loro. Ho avuto la mia resurrezione, la mia libertà, rifiutando le cure, le medicine. Appassendo come un fiore ho rinunciato a un Dio cattivo perché noioso.

Ora, prima che il telefono si rompa ti lascio una poesia.





sabato 7 settembre 2013

A Quattrocchi pari: una festa alla rovescia


Quartiere d’arnese prendi la bici, corri in paese, abbraccia la città borghese.

Scortese come sempre, come piace, con cameriere, artisti e baristi. Silenziosi in viola, pensione pussa via, lascia stare la parrucca, le tesi e la provincia della pipa.

Tre bicchieri verdi: nausea, gusto, allucinazione. Altri tre Easter color color niente. Acchiapparello - Che bello e non guardarmi così mamma bancone - L’acqua fa male. Chissà quanta acqua per eliminare.

Estate pura, dai graffi sulle ginocchia, i dadi, i ciclisti ubriachi e gli equilibristi del sorriso. La stanza capitolina persa fra finestre riposanti. 

Approfondisci con gli occhiali neri di Pasolini; disagiato. Fremo con le vertigini scure di Calvino.

Respira sottotono - I’m the wrong sector of the right side - Ossessivo lo ripetevi carogna di un vinaiolo, romanzista in borghese, fenglese ribelle, ma quando l’hai letto? Quand’ero a letto.

Quando ti innamori divori libri senza occhiali. Quando ami, ti stabilizzi, leggi opuscoli gialli senza dentista. Povere madri senza preti. Ma che bella fiaba, falla finire male, schiacciale gli occhi col fiato degli dei balordi: lo spettatore resta con te.

Conte del brindisi di una festa alla rovescia, senza te, senza noi, in silenzio ti insinui fra case: sei il benvenuto. Sgraffi il muro delle vecchie osterie: urbe, urbe, urbe: urca Campana. Graffita underground, esploratore dei se, navighi e viaggi nelle ipotesi con i potrei, con i vorrei. Uno è poca roba. Servono tavoli e commensali.

Il quadro dove è nascosto? Un dialogo. O vivi o scrivi? Hai ragione: ineguagliabile milionetrecentomilalire. Sei ore. Sono senza soldi. Epigrammato.

Fantascientifico maestro, fammi ridere ancora un po’ con il maestro dell’Havana per caso, raccontami ancora di qualche fascista, fallo tu che puoi. Aiutami a amare le nere-ricce-giocose. Giochiamo ai cavalli (lo ripeterò), ti mostro la scorza, lascio la pelle su graffi di felicità.

Ancora un bicchiere, non voglio spinte né prole, un sussurro ancora. Ingrana marce marce che marciano inesistenti sul tuo cinquantino, schiarisci gli occhi e sogna ancora un po’, scruta nel passato fibroso e magmatico. Ctonio. Ctonio. Parole sconosciute emergono laviche, non leggere, sono devoto al sensibile, sono citazioni, odiamole insieme. 

Qualcuno ama, sottovoce, senza cultura, con il Cilento in tasca, con Easter sarcastica, con il suono sparviero, con i fuori-uomini-burocratici-supersonici degli “schiacciami gli occhi”, con i fuori percorso, con i filtri critici salvavita Edizioni, con le Istituzioni.

Silenzio in sala, lo spettacolo sta per cominciare, spegnete i cellulari, ultimo schizzo, viola, burocrazia pascoliana, confusione fuori e dentro, felicità, ansia e respiro, e ancora poeti di strada: fammi sentire il mare morto fra i lupi di periferia.

Anarchico sei, ingenuo ti credo quando dici: andiamo a giocare i cavalli, guardiamo il nome più stronzo che c’è e asfaltiamo le stagioni con letterine natali e consensi monetari zieschi. Senza partita iva.

C’era un critico e poi… gli avvocati compagni, il papillon fascista, Bologna e Firenze, Antipitti e degrado targato Bo, le vacanze, i cocomeri scuartati per farti fresco polacco e indegni bambini, l’alluvione, la protezione civile dei sensi e pannocchie molotov feltrinelliane.

Un diario, il narcisismo e così via. Facci una lettera, dicci come la diccì bravi però poi, facci sentire piccoli, come delle statuine collodiane che – sotto i sonni dei lettori - prendono carne e si scusano all’urto con i passanti turisti di turno.

Fuori capitolo: I Division gioe, maicovschi, maiale, malfatto, come la suora Samantha mi innamoravo di tutto correvo dietro i cani albini depressi. Rap.

domenica 1 settembre 2013

Fuori percorso: La Fossa

I suoi pensieri vagano, nulla di profondo, e, lì sdraiato tarda ad andar via. Sembra che l'ombra dei rami proiettata sul suo viso lo rilassi molto.
Ha le mani rovinate, mani da operaio, anche se capaci di infinita precisione, il suo piccolo "passatempo" la richiede. La luna ormai ha fatto capolino dietro le nuvole ed è ora di completare l'opera.
Si alza, pulisce il machete da quello strano liquido, riprende la pala e la batte sul terreno smosso, compattando la terra con ossessiva accuratezza.
La fitta vegetazione lo cela dalle luci del vicino centro commerciale - Quella sera quel mega negozio era particolarmente frequentato da famiglie con figli.
Un tratto la pala produce un rumore diverso battendo il terreno - "tocc".
Il robusto figuro illuminato dalla tagliente luce lunare si blocca. Si china verso la terra e scorge un moncherino che fuoriesce dalla terra.
Qualcuno se ne sarebbe potuto accorgere e non ne sarebbe certo stato felice - Doveva rimediare. Prese le sue arrugginite tenaglie e lo recise, scagliando poi lontano il moncherino.
Aveva completato la sua opera - "è ora di andare" pensò.
Raccolse tutti i "ferri del mestiere" e li caricò nel retro del suo furgoncino.
Una volta seduto al volante stette molto a riflettere su ciò che aveva fatto.
Girò la chiave nel quadro e, un attimo prima di sparire nella notte disse: "la prossima volta se la travasa da solo la buganvilla Luigi".

uno scritto notturno dell'amico Baffo
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