venerdì 19 aprile 2013

Immigrant child


Piccolo. Abbastanza per passare fra due sbarre. Grande. Di un cuore puro e maldestro. La memoria è già dolore, non serve. Quando parla adotta spesso il futuro, non gli appartiene ma perché gli altri lo capiscano si impegna però non lo sa scrivere o non vuole. Piccolo. Da dire che una parola lunga sia il treno, una accogliente la casa, una dolce la torta. Grande. Per dire "ti voglio bene" ai cani perversi, da rispondere a occhi chiusi. Piccolo. Perché le giostre siano grandi, amiche girevoli, altalenanti, dondolose. Perché siano il fortino da conquistare, il castello da proteggere. Per essere un indiano contro gli uomini bianchi, per ululare correndo, per sgattaiolare fra i tetti, per suonare con delle bacchette le lattine, per cantare poesie con una sola vocale. Piccolo. Ma non abbastanza da capire che la casa in cui vive è un’automobile, le case con le ruote si muovono e come il sole la notte ti riposi con lei. Grande. Per coprire i freddi e tremolanti uomini neri alla stazione. Piccolo. Da nascondere l’amore e la fanciullezza fra le persone segrete. Grande. Non ancora per sognare solo quando si dorme.

martedì 9 aprile 2013

Mutazione apparente


    I nervi tesi, a volte, lo sono per natura. Sale l'adrenalina, i brividi lungo la schiena, sei immobile, tutto si muove frenetico, asmatico, lo stomaco come inghiottito, raggomitola fra sé, rivoltoso. Evadono le birre e il breve pasto d’occasione senza rito, consumato rapido dopo il dovere quotidiano e prima del piacere. Eppure piacere non c’è, ti rivolti nervoso con le budella, senti il vomito in gola, nel naso, puzzi dentro, provi a distrarti dalle interiora, dalle viscere ribollenti del tuo vulcano interiore. Ti senti un ancora al collo, una palla di due quintali al piede e le ossa fibrose, sfatte, di vetro. Non controlli più il corpo, la mano trema mentre cerchi di distrarti con un manifesto per strada, conti le cicche in terra, pensi alle persone con cui hai fatto sesso e quelle con cui ti sei picchiato. Conti quante volte coincidono. 
    Provi a parlare, a dire qualcosa, al tuo amico accanto, ignaro di tutto, senti la voce doppia, strozzata, senza fiato, tossisci per stare a galla ma cammini, padrone di te continui a ridere alle battute, a fare cenni con la testa di approvazione, non vuoi che cambi nulla attorno mentre la rivoluzione ti occupa. Cerchi di riafferrarti, quell’ancora potrebbe aiutarti ma non vuoi fermarti, teorizzi una bussola per non sperdere la mente. Pensi agli algoritmi che utilizzi quando lavori, alla penna sfiatata da riesumare, allo zippo da ricaricare con il gas, agli amici partiti e mai più tornati, alle compagnie aeree che hai preso e ragioni sul fatto che tuo padre non ha mai volato. 
    Ripeti in mente i libri che hai nello zaino ma ti stressano quei foglietti sparsi all'interno di ognuno, i libri sulla scrivania ti placano anche se la polvere inasprisce il palato, le riviste in bagno da ritagliare ti danno noia, le copertine dell’Internazionale appese al soffitto ti portano a spasso e scodinzoli, i libri nello scaffale di tua madre ingialliti li ami ma non li leggi. Ti fermi su qualcosa di leggero, superficiale, come quel libro che ti diede tuo zio, quel brutto thriller scritto da un ingegnere ottantenne della Nomentana, una trama di intreccio, di giornalismo investigativo immerso in un intrigo internazionale da quattro soldi. Un padre da scoprire in chissà quale continente e un direttore bastardo. Pensi al cinema, all’ultimo film che hai visto. Ma le immagini si distorcono, ti appartengono: si proiettano fasci di luce che danno la forma dell’utero materno sul bianco pavido, il tuo nascere discreto e il respiro a suon di starnuti, le sigarette e la tosse di tuo nonno ansioso, ritrovi l’affetto smezzato, la paternità precoce e l’infantilismo proprio e privato. 
    E’ tutto in subbuglio nel corpo, tutto in ordine negli altri, la mente contaminata è un groviglio disidratato, non percepisci più il tuo amico, le sue parole sono nuvole che si sparpagliano intorno a te, ti accerchiano, schiacciano le tempie e si irruvidiscono come foglie d’alloro sul torace. Respira, senza fiato, respira, a perdi fiato, respira e smorza il fiato. Smetti di respirare e poi ricomincia. Qualche colpo alla schiena per abbattere, il tuo movimento è goffo, inciampi in una cabina telefonica, componi un numero su via Tiburtina. Chiami gli artificieri e l’esercito: se arrivano i primi forse ti salverai, con i secondi sarai Dio la minaccia, dominerai il mondo per la sola presunzione di esistere. Intanto, respira e prendi fiato, il destino avrà una targa pari e sarà ammaccato.

sabato 6 aprile 2013

Sciolto


Era una piovosa notte di marzo. Il cielo a singhiozzo emetteva scariche con secchi d’acqua sulla strada. Il ritorno a casa era liscio, slittante. Le buche del raccordo autostradale erano visibili solo in prossimità immediata. I vetri appannati lasciavano l’imprevedibilità di quel percorso fatto tante volte in passato. Le strisce bianche solcavano il tragitto ormai giunto a metà. All’entrata in galleria sai che sei a metà strada, che puoi lasciare le marce e procedere a folle fino in città sfruttando la discesa. Quando piove no. Alla fine della lunga galleria aveva smesso di piovere. I finestrini potevano essere abbassati, la strada è riconoscibile più che immaginabile. I fantasmi freddi della guerra accompagnavano l’uscita dal tunnel, un cuore congelato in cartoccio volava dal freezer dopo una vita e si scioglieva sulla strada e i brividi, e il sudore, si spalmavano fra l’asfalto terreno algido ceceno.
Era di proprietà mia personale medesima propria, un cuore donato e disgelato fra i respiri e i pianti neonati in un violoncello in una discarica, sfuggito al netturbino divorziato, raccolto dagli occhi intensi formica, dalla lavandaia avvolta nei cimiteri di ruggine e topi urlanti. Principessa di discariche interiori e madre noiosa sfatta dalla cimice infiltrata nelle viscere, si decompose anche lei negra col cuoregelo che l’avrebbe salvata. Una farfalla di latta vide tutto e si immerse nelle acque sotterranee, nel beep del morse, nel tic della lancetta, nel toc della porta, nel tuc dei fumetti, nella tac della figlia, nel cuore disgelato, disperso sull’autostrada fiume panta rei con le cicche erranti e le lattine ristoro schiacciate. Un groviglio sfilato fu l’intreccio nuovo, il mostro partorito dalle venature blu delle sue gambe schive, mai lascive, come chiese a mezzanotte.
New born. Un bruco scarafaggio disattento e malvagio, buffo e tenebroso, folle fra le folle, lucido fra i lucidi, stempiato fra le lune e ricco sotto il sole. Due giorni prima morì, rinacque nuovo ancora col cuore dal freezer, nudo al centro di un monte di rifiuti in una tensione celeste, fra i fumi obliqui sipario indiscreto, in un lampo elettrico anticlericale, guarda l’infinito, ha ancora due giorni per innamorarsi prima di morire, non parla quando è in missione, bacia le sillabe interiori altre. Il tempo di morire.