martedì 29 maggio 2012

La fermata


Ci fu un ripensamento lungo il percorso. A ritroso, un attimo. Le cinque di un alba, la miseria contorta fra i cestini. Un uomo, la stazione. S'alzava per chiedere qualche spiccio, spicciava storie per qualche spiccio. Meglio che spacciare. Un cane legato al padrone senza guinzaglio. Il cane secondo del padrone due. L'incontro fecondo, scambi di cianfrusaglie. Io di fronte alla scena mi guardavo allo specchio. Il ciuffo e il baffo, non mi riconobbero. Erano mio padre e mio zio con i loro tabacchi gemelli, le loro coperte di carta e i loro materassi duri. Dal collegio erano muti. Qualche urlo in onore della vecchia casa. Io medio fra i due, ho poco lavoro da fare. Ho da attendere. La guerra fredda.

venerdì 18 maggio 2012

Ripercorrere: Questo sconosciuto




Suona la sveglia, è tempo di spostare la lancetta, aumentare il percorso da compiere in ulteriori giri circolari; si rigira nel letto. Sogna del dovrei vivere e del "ho dovuto vivere"; il vissuto moribondo e il vivere assassino; dramma mattutino. Rimanda tutto, le carte da consegnare a qualche delegato statale, gli amici, gli appuntamenti e il tempo. Rimanda gli incontri con se stesso, con lo specchio e la vertigine.
Riempie le sue giornate di impegni che non svolgerà, un modo per tenersi impegnato.

Non sente più gli odori, gli dicono che la città puzza e lui la difende parlando dell’amministrazione e delle persone. Gli dicono che quel palazzo inquina la vista e lui racconta la storia di chi ci abita. Gli raccontano delle morti in guerra e lui esprime i motivi del conflitto, ne prende posizione e giudica.

Non empatia ma cronaca.

Al ristorante non sapeva mai cosa scegliere, a volte si affidava al prezzo, altre al conosciuto: il conosciuto! Amava per abitudine mangiare sempre gli stessi piatti, la stessa quantità di cibo e con le stesse persone. Il suo stomaco quando riceveva qualcosa di nuovo si ingrossava e lui non dormiva la notte per indigestione; pensava e si puniva.

A volte puniva gli altri con cuore, con rabbia, con repulsione dominante, con rifiuto e scambiando sé con gli altri: urgeva uno specchio ma chi poteva offrirglielo senza ferirlo? Ti amo, le disse lei e altre mille; lui rispose sordo agli impulsi, lesse il labiale e ripeté senza cuore, perfido in una malaugurata buonafede.

Non sentiva, non provava, non gustava se stesso, le persone, la vita e il mondo; semplicemente stava con le mille parole e i duemila pensieri a darsi compagnia. Parlava con una donna e pensava è lei quella giusta, chissà come sarebbe viverci, magari sarà bello per questo, magari sarà brutto per questo: immaginava e questo gli bastava. Parlava con un’altra donna e pensava è lei quella giusta, quella di prima era sbagliata per questo: non mi capiva. Ancora una donna e pensava al divertimento, alla leggerezza: guai a dirgli che credeva in una vita insieme. Ri-circolava fra queste e poi creava nuovi circoli: non viveva, immaginava continuamente.

Exit Post: Mai visse come un uomo, sempre fra le coperte, il mangiato certo e mille dubbi d’amore; mai conobbe realmente l’amore, sempre incerto, mai conscio, mai consapevole; mai fu consapevole, sempre in lotta con sé e con mille altri sempre uguali; mai cambiò compagnia, donne, genitori e amici, una casa e un soffitto a schiacciarlo ogni giorno, nella sua immaturità puntò a sopravvivere; mai sopravvisse se non pensando a come avrebbe potuto vivere come un uomo.

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domenica 6 maggio 2012

Ripercorrere: La cento e 4


Nacqui per primo, una volta sola. Poi una lunga schiera di secondi fino all'ultimo, eravamo la prole. Quando nasci non hai tempo per pensare, non puoi nemmeno accenderti una sigaretta. A quattordici anni presi il vizio perché il migliore della scuola fumava.

All'inizio vivevamo in campagna, rincorrevo i cani e venivo bastonato con loro. Poi una volta trasferiti in città arrivò la miseria. Eravamo in troppi, tanti: in campagna sono 20 braccia per lavorare, in città 10 bocche da sfamare. Ero il più bravo della scuola, mamma non mi concedeva altro da fare. Andavo a scuola fino al 26 luglio, poi anch'essa mi abbandonava.

Lavoravo al tabacchi di famiglia, portavamo il cancro ma all'epoca non si sapeva e quindi tutti ci sorridevano. Correvo qua e là, come quand'ero bimbo in campagna, per portare i soldi alla posta, mamma me li metteva nelle mutande: era più sicuro. Una volta portai 10 milioni, correvo come il vento; avevo 6 anni. Non  uscivo a giocare col pallone insieme agli altri bimbi, non andavo al mare con i ragazzi e non andavo al cinema come gli uomini: correvo alle poste.

A vent'anni entrai per la prima volta al cinema, vidi "Lo chiamavano Trinità", oggi guardo i western per addormentarmi, da ragazzo vedevo fino a 3 proiezioni di seguito senza soste. Amavo la matematica, facevo i conti al negozio, ed ero il migliore della scuola; forse l'ho già detto però mamma diceva che dovevo dirlo spesso.

A 21 anni votai per la prima volta, Democrazia Cristiana e quattro preferenze, mi spiegò come funzionava mamma. Mi iscrissi a Medicina a Napoli convinto di essere il più bravo; non fu così.

Successe poi un cosa brutta che non vi racconto.

Divenni poliziotto, tutto quello che mi diceva mamma era restrittivo, repressivo: ero a mio agio. Votai ancora un po' Democrazia Cristiana, girai l'Italia: Siena, Firenze, Torino, Vicenza, Verona, Genova. Ricordo le bravate con la celere, i brigatisti da spiare, le identità mutevoli, i nascondigli, cambiavo auto per non destare sospetti ai fanatici, rischiavo la vita. Le uscite con i colleghi, le auto nel muro, le prime scopate e soprattutto l'alcol. Una nuova famiglia, camerati, non tornavo spesso da mia madre, al massimo a Cologno mi vedevo con uno zio-cugino.

Bevevo praticamente sempre tranne quando lavoravo. Al Nord faceva freddo, tutti bevevano. Al Paese dove tutto è partito, tutti bevevano. Mi resi conto dell'estrema utilità dell'alcol e la necessità di essere discreto.

Lavoravo bene, ero il migliore di tutti.

Essere il migliore di tutti nell'amministrazione pubblica ti fa sentire solo, vieni isolato perché sei visto come lo "stronzo" che fa sgobbare gli altri, sei la causa delle ramanzine del principale. A me piaceva stare solo, i vizi erano compagni e dormire mi faceva sognare.

Quando tornai in città, non lo dissi a mia madre, mi innamorai della prima comunista per strada (solo dopo ho scoperto che era identica a mia madre) per farle un dispetto ed oggi, sebbene non la vedo molto, faccio il bravo figlio sulla carta, ho la cento e 4.



Exit Post: Non dirò ulteriori dettagli perché sono un uomo di poche parole, mi sono descritto come la peggiore persona possibile perché non sono il migliore di nessuno, nemmeno di me stesso. Ho un complesso e lo porto con me, presto lo lascerò ai miei figli e allora sarò libero di prendermi un cane e dare bastonate.


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martedì 1 maggio 2012

Ripercorrere: Compagna Suggestione


Erano anni in cui un'utopia ci formava, forgiava le nostre menti per prepararci all'ora X. Come al solito, noi giovani cresciuti senza una guerra sulle spalle, ma solo alle spalle, l'ora X la pretendevamo, volevamo tutto e subito.

Ero prossima alla laurea in Lingua e letteratura francese, la mia tesi era sul maggio 68, 42 libri di bibliografia tutta in lingua e tante, per il professore troppe, considerazioni personali. Dovetti riscriverla secondo il consueto copia e incolla. Ero stata in Francia come ragazza alla pari, mi chiamavano Louis, sebbene fossi una donna. Bevevo molto caffè, nulla a che vedere con quello dell'Italia meridionale, ma era di tendenza trascorrere ore a dialogare del comunismo e del PCI con troppi rubli per essere bello, erano consociativi e questo era inammissibile.

Una volta vidi la farfalla di Dinard, ma la politica era più importante. Una morale, un'amorale tutta nostra, niente Stato o partito, niente popolismo: Lotta Continua. Lotta Continua, un imperativo, un movimento, un giornale, una sinistra tutta italiana e un po' francese. A Parigi la vita era diversa, gli stimoli intellettuali, culturali e sociali erano infiniti; crebbi a vista d'occhio. Leggevo Proust, Baudelaire, Sartre, Foucault, Rimbaud. Ogni mattina andavo alla Sorbonne e studiavo il diritto allo studio; andavo in fabbrica e partecipavo alle assemblee operaie.

Avevo solo vent'anni quando tornai a Salerno. La campagna e il panificio, questa era la vita dei miei genitori e dei miei zii. La notte facevano il pane, il pomeriggio zappavano. Io studiavo, facevo movimento, gridavo contro i sindacati. Ero antifascista e provavo un odio viscerale verso i partiti di governo; si sa, quegli anni erano così. La resistenza era la rivoluzione dei nostri padri, una rivoluzione interrotta da portare a compimento; il fascismo era ovunque e andava abbattuto.

All'università occupammo diverse aule e i professori seguivano le nostre lezioni. I cortei erano violenti, i fascistini picchiavano ma non restavamo certo a guardare. Durante le manifestazioni capitava che i vecchi bigotti ci chiamavano "puttane", che le vecchie bigotte ci chiamavano "puttane".

Noi lottavamo per loro e contro di loro, lottavamo per noi, per respirare, per crescere.

Alcuni poi, andarono a fare movimento a Roma, li ritrovammo sui giornali, c'era scritto che erano terroristi,  Brigatisti, ma non era vero - anche io dicevo di essere per la Lotta Armata, ma di fatto sognavo di diventare una hostess di volo - poi qualcuno è morto sparato.

Di quegli anni ricorderò le riflessioni alla fine di ogni assemblea sul diario, le letture di Pasolini, i manifesti e la colla, gli striscioni e la rabbia. Erano anni in cui l'utopia ci formava, forgiava le nostre menti per prepararci all'ora X.

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