venerdì 7 novembre 2014

Un indice statistico


Ho fatto un indice statistico delle mie emozioni
ho registrato tutto con una piccola cimice posta
sulla testa e sul cuore.
Ho raccolto le paure, le insofferenze e i disagi
i colpi di frusta, le urla, i pianti e i silenzi.
Ho fatto la conta dei crampi allo stomaco
da quando sono piccolo
quando sentivo il cognome
pronunciato dalla maestra
fino all’esame per farmi dottore.

Non è cambiato nulla, le emozioni
conservano la nostra infanzia,
preservano la nostra vita
la nostra natura.

Ho raccolto e ordinato come un bibliofilo,
ho trovato una luce in fondo al cuore
l’ho racchiusa in una stringa di codice
per trovarla ogni volta che ne
sento il bisogno.

La stringa è il tuo nome,
quando sto male e quando voglio stare bene
lo riscrivo cento volte
fino a quando non compari
e la luce dal fondo dirada le nuvole

e riscalda l’interno della caverna mia.

venerdì 31 ottobre 2014

Boschi di braccia tese




Potevamo rotolare ancora un po’ giù dalla collina, con la fronte scoperta e boschi di pugni chiusi. Ma siamo rimasti lì, con le ruote di carta inumidite d'inchiostro, una pozzanghera di parole senza limiti sotto il cielo avorio che urlava di amarci con più Indie da scoprire e meno uragani da preparare.

Potevamo scalare ancora un po’ fino alla punta della collina, con picchetti zuccherati e scritte sul muro. Ma siamo rimasti lì, incapaci di valicare il muro della malinconia, dei dolori passati senza aspettarci nulla di buono lungo la strada. Avremmo potuto dirci favolosi, giovani, teneri ma, miserevoli siamo invecchiati privi di un pino dove sotterrarci sei piedi sotto.

Raggruppati nella folla composta da noi due, abbiamo scavato nella miseria dei fallimenti dei nostri padri, nei silenzi di madri che meditano il suicidio, e abbiamo fatto casa nella grotta della disperazione. Dopo un po’ avevamo fame, ma non avevamo la forza per cacciare cibo né per uscire e respirare con i nostri vecchi polmoni. Allora, non sapendo cosa fare, mangiai il tuo braccio e tu il mio, dicesti di non mangiare l’altro braccio perché volevi che ti abbracciassi in qualche modo. Allora, preda della nuova religione, il cannibalismo, mangiasti le mie gambe e io le tue. Mi dicesti, non mangiare l’altro braccio ti prego, e allora mangiai il tuo cuore, con gli occhi a fare da contorno. Mangiai tutto di te, anche il braccio esile, tutto tranne il collo, il pezzo per cui decisi di amarti, per il fascino del lungo collo bianco dove le vene erano autostrade da guidare fiduciosi di un approdo, le tue ossa che si apprestavano sotto la pelle erano solide strisce bianche da triturare, erano cani da investire per non morire.

Potevamo rotolare ancora un po’ giù dalla collina, con la mente scoperta e boschi di braccia tese. Ma non avevamo più teschio né braccia e allora decidemmo di morire intrecciando i nostri colli serpenti, strisciando fummo palla di carne per rotolare ancora un po' giù verso l’unico motivo per cui entrambi decidemmo di amare.

mercoledì 17 settembre 2014

Ho comprato una sveglia piccola e quadrata

Ho comprato una sveglia piccola e quadrata per non essere più lunatico, ma scientifico giocoliere e tenero soldato.

Quando la giro da un lato mi dice l’ora che fa per non arrivare mai tardi da te.

Quando la giro da un altro lato parte il cronometro perché mi hai detto di superare i miei limiti.

Quando la giro da un lato mi dice che tempo fa così indosso gli abiti giusti senza provocarti vergogna e non avere né freddo né caldo.

Ho comprato una sveglia piccola e quadrata per non essere più imbranato, minuto dopo minuto seguo il programma e non svolto mai per strada.

Ho comprato una sveglia piccola e quadrata che suona ogni giorno alla stessa ora e mi dice “è tempo di alzarsi dal letto, o niente amore e non si lavora”.

La felicità non ha tempo, va di fretta, presto va inseguita.

Ho comprato una sveglia piccola e quadrata ma da quando le pile sono scariche, abile fermacarte, protegge dal vento i miei scritti nati a tarda ora e spettano alla fine, le pile sono scariche come il mio umore.

Benvenuta, tristezza. La tua ora giunge lenta e dolce che quasi quasi non ti faccio più andare via.

Ho comprato una sveglia piccola e quadrata per non essere più lunatico, ma scientifico giocoliere e tenero soldato. 

sabato 19 luglio 2014

Improvvise città


Dilapidare matrimoni lungo le rive dell’oceano, intrappolare lo spreco delle gocce dal rubinetto pubblico con una guarnizione in gomma. Riempire taccuini nel tentativo di descrivere il vento, i venti, i sospiri e i sussurri. Annotare la lista della spesa per sgomberare il magazzino dei pensieri. Stanchi di perdere ancora la fermata dei missili spaziali. Viaggiare lungo un sorriso di un’ancella, soffiare i suoi capelli come foglie, ondulanti versi colati sulle efelidi estive. Saltellare tra fontane chiare lungo i campi fino a calpestare improvvise città. Nuotatori dilettanti spalmati su quartieri dorsali e miserevoli strade. Rimbambiremo le nuvole figlie dei treni, tra le mani c’è l’intelligenza, maestra artigiana dalla luce fiacca ma prolungata e presuntuosa del dio futuro. Giocolieri annoiati ci rallegreremo sotto le cascate metropolitane dei panni inzuppati del terzo piano sotto cui laveremo i nostri visi, i nostri vestiti, i nostri corpi. E infine torneremo alla panchina, come ogni notte, dove saranno nuovi i sogni di cartoni riscaldati per fare l’amore con le malattie del posto.

mercoledì 11 giugno 2014

Formiche


Formiche, siete ovunque. Siete milioni a edificare le vostre grandi opere nella mia stanza. Se almeno pagasse l’affitto. Sapete, i tempi non sono dei migliori per le tasche dei contribuenti. A proposito ho trovato dei vostri parenti anche lì; dicevano di essere i cugini maggiori, stavano lì, nelle scarpe, anche se non credo abbiano resistito allo smog dei miei piedi.

In ogni istante, siete con me. Mangiamo insieme, o meglio, come un divorzio clandestino, rubate gli alimenti di continuo. Sono cosciente di essere la vostra sopravvivenza. 

Mi seguite fino al bagno e spesso cadete nel lavandino, su questo volevo dirvi che non c’entro niente, anche se vorrei. 

Quando dormo marciate lungo la collina che è la pancia mia, ma forse è pura immaginazione, insomma producete suggestioni; è come se percorresse lunghi cammini ogni notte per fare capolinea nei sogni miei.

Quando c’era lei, però, eravate confuse, altro che una grande squadra operaia, mie piccole guardone certo sembravate cicale mica pezzettini neri dal capo chino. Vi ho visto appostate sugli spalti della libreria. Ho visto anche che provavate goffe a imitarci: la vostra invidia glorifica l’essere umano e il suo sudore.

Ora che lei non c’è, siete di nuovo organizzate a passo militare e con rigore sovietico pronte a rovinare la pace mia, in fondo, avete ragione, è un ambiente più adatto a voi che a me. 

Con lo sguardo ispeziono la stanza

Guarda cosa hai lasciato in giro, sciafarazzo di provincia che non sei altro: cicche sul letto, lenzuola sporche, il cuscino giallo, libri e giornali in terra fra croste di pizza e i cartoni del corriere, lo spazzolino più adatto al water che ai tuoi denti, lo shampoo colato sopra il riso della settimana scorsa.

Mi sento ospite, ma quanto è intorno alla stanza, l’ho costruito io. 

C’è di tutto, ci siete voi e i miei disordini, manca solo lei. L’ho accompagnata lontano e una volta andata via, dopo di che mi sono diretto al supermercato per acquistare l’insetticida. Ho scelto il più costoso, perché letale, ma soprattutto spietato.


Lungo il ritorno, mentre percorrevo la grande collina, ero così piccolo, vestito di nero in conflitto col sole, come voi pensavo di venire schiacciato da un momento all’altro. 

Credetemi, avrei voluto uccidervi, ma poi ho capito che non mi importa. E quindi, care amiche di un’estate, sapete che vi dico? Avete vinto. Bandiera bianca per me. Tenetevi pure la stanza, io non torno più.


mercoledì 4 giugno 2014

Una minaccia meravigliosa


E buonanotte a chi ha sonno dopo aver mangiato dal nonno,
a chi ha ancora fame e chi ha bevuto di traverso.
Buonanotte a chi sorride, a chi perennemente
vortica tra nord e sud e non viaggia in prima classe.

E buonanotte a chi maledice il padre eterno
Mentre gioca alle macchinette con pausa sigaretta.
Buonanotte a chi si buca ancora, fuori moda
mentre lascia la figlia fuori scuola.

E buonanotte a chi comunque cresce e sorride
anche sotto bombardamento.
E buonanotte a chi silente urla senza chiedere voti.
Buonanotte a chi con forza parla di odio di classe come Edoardo.

E buonanotte a chi lavora 68 ore la settimana,
ma quante ore ha una settimana?
E buonanotte a chi è pagato 1,85 euro l’ora
e a chi non va in fabbrica perché ha studiato e ci crede ancora.

E buonanotte a lui che al telefono riceve una proposta:
50 euro al mese per fare la telecronaca di pallavolo.

E buonanotte a chi traina chi non vede
e ogni giorno gli pesta un piede.

E buonanotte a chi dorme
mentre la casa si allaga,
presto i boy scout busseranno al citofono per dirgli:
chiudi il rubinetto, le piante sono piene!

E buonanotte a chi ti rivolge il dito contro per dirti cosa?

Nulla se non una minaccia meravigliosa.

sabato 31 maggio 2014

Le sbarre del lago industriale


     Che poi in uno stanzino non si sta così male. Siamo io e te, chissà quante storie avremo da raccontare. Che poi se chiudi gli occhi puoi andare ovunque, dimenticare le storie che non ti va di raccontare. Che poi se diventiamo scemi non succede niente di male, l’unico problema è che non possiamo fare ironia. Che poi alla musica reagiamo tutti uguale, nessuno è immune, non la puoi ignorare.

     Siamo permeabili alle vibrazioni, come ai piccoli gesti, ai rumori. Senza rumori, dicevi che dicevi sempre al centro occupato una volta, tanti anni fa, dal tuo papà, dicevi che senza rumori la musica non si può fare. Dammi un altro po’ di vino dicevo sempre, poi ti lasciavo il bicchiere e riscuotevi la cauzione alla cassa. Magari ci fosse la cauzione pure qui. E pure una cassa.

Ma torniamo a noi.

     Devi sapere che dietro questo rudere, che una volta era un’industria, c’è il mare. E’ roba artificiale, come quella che ha fregato mio figlio, comunque, dicevo che non è che qualcuno voleva fare il mare profondo, si trattava di un palazzinaro che aveva fame, voleva farci un centro commerciale, prese la ruspa e di suo pugno inizio a scassare tutto, pure le falde acquifere.

     Ora c’è un lago in mezzo a questa metropoli, sento l’odore pure da qua.
Sta roba poi non è che te la racconto perché me la sono inventata, ho una fonte chiara e affidabile, me l’ha detto una mocciosa, mi ha parlato pure dell’assessore e dei ragazzi che si danno da fare, che poi c’è sua madre ma non ti dico niente di lei. 

Che poi tu sei giovane non è che ci credi a quello che dico, ma un giorno capirai.

     
     Ora ti racconto questa storia, e stammi a sentire, tanto stasera piove, senza che cerchi le scie alcoliche di tuo figlio, lui con l’ago non fila nulla, va di scarto; senza che cerchi, dietro queste sbarre per evadere puoi fare due cose: o chiudi gli occhi e inizi a sognare oppure stai zitto, muto e continui ad ascoltare la storia che ti sto per raccontare.

lunedì 19 maggio 2014

Lieti saluti


Senza viverci mai. Ci ritroveremo ancora disfatti sulla pietra di una panca chilometrica con il respiro affannato dopo ore in attesa del sole. Il mare ci ritroverà apparecchiati sui letti bruciacchiati dai mozziconi invadenti e gli occhi invisibili tra le parti nascoste rintracciate tra le caviglie e il petto. 

Faremo ancora viaggi di seta navigando sulla tua pelle tenera. Abbandoneremo per una volta le cene confetto e i diplomatici. Tra lieti saluti, vecchi fuggiremo via su di una casetta di legno incastrata tra i rami secolari di un timido centro sociale. 

Senza singhiozzi da centro commerciale avremo il battito incrociato, lontano dalle paure della miniera con i nostri nonni nero carbone; dalla paura degli sguardi nervosi, come quelle notti quando la pelle si induriva con gli schiaffi della maturità. 

Contenti di accettare i calci, avremmo preferito digiunare il consumo del pane quotidiano, dell’avere, del dovere avere, del dover avere le carte, del sopraffare, del sopraffare sorelle, madri, fratelli e padri. 

Avremmo preso calci nello stomaco sorridendo, pronti a issarci come bandiere in sacrificio della futura umanità. Tutto per ciccare con le dita; per navigarci teneri tra una discoteca con i bagni meravigliosi e un cimitero monumentale. 

Lo avremmo raccontato ai nostri figli sconosciuti come il lavoro a tempo indeterminato. 

Quando si è fatta alba, stropicceremo gli occhi ancora svegli, senza tremolii per il freddo che schiarisce il cielo tra la notte e il giorno, e guarderemo i vecchi danzare a passo militare su di una vecchia signora del mare. Lungo questa percorreremo le convivenze, i matrimoni, i divorzi legali e i nuovi matrimoni clandestini. Nascosti da tutti, alla luce del giorno mite e affettuosa. Senza viverci mai.

giovedì 8 maggio 2014

Occhio di stazza

Negli anni che la nostra salernitana città sotto l’impero del glorioso pontefice Martino quinto si reggeva, in essa di grandissimi traffici si facevano, e mercanzie infinite di continuo e di ogni narrazione vi concorrevano; ci ritrovammo coi pollici girati su di una panchina.

Vicino al chiosco a bere per compagnia, avremmo dovuto come gabbiani inseguire città sporche per avere bianchi sorrisi. Gli orpelli via, insieme all’anima del passato, ai cervelli maciullati, al cristo sconvolto col pane nelle mani del ricco avvocato dal naso bianco entusiasta della valigetta antica per cui ha speso i soldi del povero piattino domenicale.

Lì, fissi e immobili per sempre, tra dogane del porto turistico e del porto commerciale, scontavamo notti silenziose con le gru con le lucette rosse semaforo. Era una bella serata dicevano prima che ci isolassimo nella musica dell’errore, nell’avversativo lungo una generazione e breve come le nostre vite. Nel naso piccolo e con rughe nevrotiche fra qualche lentiggine ciliegia.

Spaesati e provinciali contavamo le navi entranti al porto, con una piccola barchetta sudamericana che scortava le città internazionali lussuriose e i traghetti della speranza. C’era la morte da esorcizzare, da tirare fino all’alba, con i compagni d’occasione necessari. Hai visto quant’è bella la città di notte, tiriamola a lungo finché possibile.

Ascolto Masuccio e canto di Porta Portese con te ma a letto mi aspetta la morte, giochiamo ancora un po’, freghiamoli tutti con il sorriso, nient’altro che denti. Prendiamo un caffè con sambuca per dormire. Ho bisogno di confidenza con la bara, ancora lì, difficile da issare, con l’occhio di stazza riposante, ignaro risucchia i comodi sogni a basso costo.

Dormirò poco senza te e le larve che a occhi chiusi entrano nel tuo corpo, che ti divorano mentre decifro il sogno sudato. Chiudiamo questa finestra dell’inconscio, apriamo gli occhi e troviamoci un lavoro.

Non ditelo all’anarchico ariete che rubava per mantenersi in forma. Non dire “ma”, privami d’aria, non lasciarmi avversativi, lasciami dormire nell’incubo, ancora un po’ prima che finisca questo gioco morboso e inevitabile in cui siamo sommersi. Che piacere farlo con te. Che piacere restare immobili mentre maledici chi ti dice addio.


Sorridi dal paese lassù perché qui in città si ride fino ad impazzire.


Post narrato: "E' tu sempre amerai, uomo libero, il mare! In lui ti specchi intero: nei giuochi sempre nuovi delle sue Onde  innumeri i moti tuoi ritrovi, e nei suoi aeri vortici le tue latebre amare "

venerdì 25 aprile 2014

Sempre di lunedì

E’ un anno che ci guardiamo sempre di lunedì
se solo avessi detto Abbiamo i giorni contati
avremmo potuto godercela ancora un po’
invece impantanati nei giardini labirinto
siamo rimasti a scegliere la direzione
soffocati come fossile, questo siamo
dopo la gita nelle sabbie mobili.
Un biglietto di sola andata
destinati soli alla morte
fra le parole a imbuto
Quelle non dette
Qua su per giù
con forma
di goccia
in auto.


sabato 12 aprile 2014

Vorrei ti accadessero cose orrende

Vorrei ti accadessero cose orrende
così, curioso, per vedere di che stoffa sei fatta.
Potresti farmi un caffè anche se sono nervoso
fallo con amore, sai, non basta solo il caffè.

Potrei sniffare la pelle e le rughe quando sei stanca
quando nero e innamorato, torno dal mare.
Hai vinto un abbonamento alla lotteria delle mie ossessioni
hai scavalcato le donne di casa.

Chiamo i vigili lamentandomi dei vicini
mentre tiri i piatti contro il mio visino.
Potrei urlare, anche se potresti uccidermi
quando scordi le favolose pillole anche se mi ami.

Potresti lasciarmi stropicciare il cielo
per poi abbracciarmi una volta vuoto.
Dopo le urla potresti coccolarmi fra i tuoi seni
lasciandomi avvolto fra le tue braccia come coperte
suderei un po’, come sempre quando sono triste.

Vorrei ti accadessero cose orrende
così, curioso, per vedere di che stoffa sei fatta.
Sei il mio personaggio preferito.
Scriverò ancora di te.
Il tempo di bere per farti attraente.
Sobrio ti lascerei.


martedì 1 aprile 2014

Carrozza numero 6


Carrozza numero 6. Destinazione Roma Termini. Una suora occupa il tuo posto. Non sorride e annoiata raccoglie le sue cose. L’ha riscaldato da Reggio Calabria e ora deve cederlo malvolentieri. Mi rivolge la parola severa dotata del classico “voi” d’un tempo e regionale.

L'impianto elettrico della cabina è guasto.
Le luci sono spente. Siamo al buio.

Fortuna che non siamo soli. Sfortuna che siamo con due signore over 50; non di età. La bionda e la mora. La bionda è una docente di ruolo di Siracusa che ha insegnato a Modena per 3 anni, a Roma per 8. Precaria in treno per 15 anni.

Famosa "La leggenda della precaria che va su e giù per la scarpa".

Il suo amore è di Benevento ma lavora a Taormina. Avevano amici in comune quando lei saltuaria insegnacchiava a Napoli. Nacque un amicizia, un legame, poi l’amore, poi 8 anni di fidanzamento e infine il matrimonio. Un matrimonio pronto a consumarsi a distanza, senza figli e con tanta speranza. Lui, agronomo fallito per colpa della crisi e dei municipi che non pagano ha deciso di entrare nel vortice dell’insegnamento come lei. Insegna in una scuola paritaria, ha bisogno dei punti carriera. Dice di lavoricchiare, nessuno l’ascolta, bimbi viziati da portare fuori dalla scuola ma poco importa, è la strada per entrare a scuola, per tornare da lei, per avere una famiglia completa e cristiana. La suora annuisce simile a un benfatto stanco, fievole evidentemente dovuto. Ha sonno, dice che il buio le porta il sonno, si scusa e dice “svegliatemi a Napoli”.

Amen.

La mora col petto libero al freddo, maglia leopardo, gambe larghe di cui una poggiata sul rilievo sotto il finestrino. Il telefono non ha mai problemi di linea. Anche in galleria. E’ nonna e non vede l’ora di tornare a Napoli. Commentando la vita della bionda le scappa uno “scristo” ma la suora dorme e lei è priva di pensieri.

Dicono di scendere a Napoli.
Alla prossima fermata qualcuno occuperà i posti circostanti al numero 44 della cabina 6.

Intanto, il viaggio è per le due over 50, ormai come sorelle, tempo di organizzarsi per la dieta. Ciò che le accomuna è la scarsa volontà. Parlano di pillole a 60 euro fatte con estratti naturali.

Possono mangiare tutto dice la mora. Anche il fritto. Il medico è di Ponticelli.

Pensano al bendaggio non invasivo. Bypass intestinali non invasivi. La bionda chiede il recapito. Si dovrebbe chiamare Bussiello. Sembra affidabile stando alle premesse. Nel frattempo la suora passeggia, si copre, prepara lo zaino e non vede l’ora di scendere a Napoli Centrale.

La mora chiama la nipote che pesava 108 kg, adesso partecipa ai provini.

La nipote dice che il dottore è morto.

E lei non si sente tanto bene.

La suora e la mora con la bionda mi salutano augurando buon lavoro. Mi avranno preso per uno che lavora, in effetti, da quando sono sul treno non ho fatto che scrivere; di loro. 

domenica 23 marzo 2014

Dal lato del padrone


La volta che ha fallito aveva gli occhi del padre. Imbottigliato nel traffico umano poteva liberarsi solo con la rendita e qualche piccolo servizio. Banana, cacao, pomodori e trecento ettari. Aveva un patrimonio pubblico per scappare senza biglietto. Non voleva muoversi, né faticare. Voleva solo rimuovere la ricchezza e distribuirla fra le sue tasche. Tutto questo soltanto dopo averci provato posando i suoi sogni su sentieri mai solcati. Da giovane diceva di guardare al passato per prendere la rincorsa. A volte non è sufficiente. Il fango ti tira giù e gli pneumatici si scorticano. Mollò il villaggio, abbandonò il suo continente.

I vaccini e le armi. La droga e le bimbe. La rendita perfetta. Gli sfizi. 

Abbandonare non significa andare via, per farlo basta sradicare il corpo dalla terra, dimenticare di essere albero e diventare uomo occidentale privo di radici. I soldi fra le mani sono del colore che vuole, basta girarle dal lato del padrone.

martedì 11 marzo 2014

Fiaba civile per un amico


In tarda età ci innamorammo del lavoro. I baroni erano molto preoccupati per la cosa ma della nostra brama amorosa seppero approfittare facendoci dimenticare la dignità regale del lavoro. Quando ci licenziarono, i baroni trassero un sospiro di sollievo, ma per poco: perché pur di lavorare non ci bastò essere licenziati.

Lanciammo l’anello nel lago. Dopo averlo indossato per colmare vuoti. L’oggetto circolare inafferrabile lungo il quale abbiamo percorso una parte della nostra vita ora è lì fra le onde verdi senza schiuma ad ossidarsi col tempo. Schiavi immersi in fuliggine e lapilli diranno che siamo immobili, pietra di lava. Il tempo è sfuggito in posa per una foto, statue perfette in una ripresa di immagini statiche ripetute durante le quali abbiamo visto fiorire barbe, ingrassare i nostri corpi, perdere i nostri cari. Le esperienze di vita da presentare ai baroni, riga dopo riga, diventarono libri, mattoni da portare con l’anello sotto la lingua al prossimo barone per una serenità a tempo determinato.

Lanciammo l’anello nel lago ma non ci innamorammo delle sue rive. Ci allontanammo verso lidi dal cielo grigio che come un coperchio ci proteggeva mentre ci schiacciava. Sulle rive di una birra e una lingua nuova, priva di anelli, tutta da addomesticare.

sabato 1 marzo 2014

Vediamoci più spesso


Paura di una sconosciuta come tua madre. L’inizio è ruvido, poi quando il ghiaccio si scioglie, la fiamma è blu. Balbettante tastiera. Ipnosi di verso fraterno, raccogli tua melma. Una scia lungo il cammino, liquido terrestre. Procedi forzato, lungo l’arco a forma di unghia che rilascia polvere di stelle e frammenti di forno galattico. Sali fino al tetto dell’universo, cosmetico del cielo ridi ancora pagliaccio. Di ghiaccio si scioglie, la fiamma è blu. Dilatato l’occhio che soffre quando s’offre da bere. Balbuziente la bocca. Le corde  procedono spedite ma lei s’apre e saprà chiudersi. Ma poi dirimpetto si sfa. Allargasi fino alla gengiva scostumata. 

E’ da tanto che non ci vediamo. Come stai con tuo marito come il tuo cane con te. Paura di conoscermi saltami fieno. Forse vorrei dirti che arrivo quando è tardi. Perché ho paura di arrivare in anticipo. Forse era un'ipnosi. Ma le parole si ripetono. Come il graffiare tuo dolce. Carezzami ancora prima che sia sera. Sai di giorno fa caldo con lo smog. E di notte con la polvere di stelle mancano i raggi calore. Con lo smog così fa freddo. Lasciami solo. Solo laddove è possibile studiare. Bocciato senza il frigo rumoroso, l’aspide semiattivo, la cura della spesa, questa lista eterna. Come noi. Come le candele, le batterie, il benessere, le tue gocce finite. Come stai bene quando le prendi. Vediamoci più spesso.

lunedì 17 febbraio 2014

Il rumore del vicino

L’orologio di casa è fermo alle ore otto e quaranta e cinquantasei secondi. Le lancette non si inseguono più, non vogliono più incrociarsi. Tre aste di diversa misura ferme e distanti, come noi che non ci vediamo da tempo perché fa rumore. Guarda il silenzio delle lancette. Fredde su sfondo bianco si adattano ai muri sporchi sembrando statua cosa bella e morta. Il rumore della lavatrice, del frigorifero, del forno, della radio impongono di aumentare il volume della suoneria al telefono. Ho una suoneria così alta che il vicino di casa vorrebbe rispondere con tutta l’irritazione che ha in corpo. Violento mi distruggerebbe senza psicofarmaci. Anche io.

lunedì 20 gennaio 2014

45 ricoveri


Un poeta. Si affaccia alla finestra del tavolino. Rompe i dialoghi affannati. Interrompe i lunghi respiri. Col fiato sospeso tiriamo gli occhi dal bicchiere. Ride guitto come se sapesse le nostre misere storie, la nostra vita priva di legami. E’ vecchio, biancoso, con i canini giallo oro e il cappello nervoso. Chiede di sedersi. Pagliaccio pronto a divertirsi. Lei gli chiede di improvvisare, lui dice che quella è roba da attori. Lui è poeta. Lei chiede una poesia d'amore. Lui chiede Cosa mi dai in cambio?, le prende una sigaretta; le sue sono nascoste nel giaccone. Mi dice Leggimi e rilascia una denuncia a suo nome presso la caserma del quartiere. Non riceve pensione. E’ per tre quarti invalido e danzante. Dopo 45 ricoveri, uomo classe ’52, si fa dire dall’assistente sociale Tu non sei normale. Lo ha mandato da una psichiatra - Come era bona - dice che gli ha dato del bipolare. Ao’ – inveisce offeso – Io so’ borderlain’. Per la pensione si improvvisa bipolare puro. Dice di aver dichiarato guerra ai ricchi con la poesia. Ricorda di Marisol, il suo amore ninfomane che non dice mai di no. Ci ruba il vino e ride guitto. Stava bene anche con Merz Bau, a Zurigo, dice di aver fatto un orgia dadaista e che c’era pure Lenin prima di fare la rivoluzione. Una notte alle 3 e 30 del mattino si sveglia per ispirazione, di solito si gira nel cartone. Non quella notte. Una pausa lunga per dire Vuoi vedere che sono nato a Macerata ma le poesie mie sono meglio di quello di Recanati? A memoria fruga nella mente, con le pause battute asilari fra le dita delle mani. Dice che la notte se scrive fa meno freddo, però scrivere lo frega, come quella volta che non lo portò sotto il ponte a dormire. 2 Giugno 2010. Si accende una sigaretta, ora fuori dal giaccone. Quel giorno scrisse male dell’Italia, poi ripensò a Marisol, che diceva sempre sì, come tutte le donne intelligenti, le uniche a cui dedicava le poesie. Per 5 euro le dedicava a tutte. Finisce a cantare in spagnolo col profumo del mare e i sorrisi di sabbia. Rigetta aggressivo l’infamità del prossimo. Non mi frega niente di quegli stronzi e poi ride come ride della pensione, delle poste, delle donne. Dobbiamo andare, la monotonia ci chiama. Con tutte le brutte parole del dialetto mio confuso dibatte il cappello. Non vuole essere scaricato. Si alza senza chiedere, senza dire, senza rime. E’ donna come la musa. Vate del mondo o almeno, idolo – morboso- del quartiere. Un Poeta.

domenica 19 gennaio 2014

La trappola dello specchio


Mentre affolli il bicchiere dei rapiti, dei reclusi, dei ricercati. Mentre affolli una discoteca con la schiuma scontentata, svagata, pulita, in un imprevisto concordato. Mentre rischi per giungere alla gloria, per annaffiare la penna, per trovare contatti e contanti. Mentre strusci silenzioso fra serate altrui dove rubare i discorsi, assorbire i fardelli, sfuggire all'ambiente. Mentre proclami la rivoluzione a testa bassa, le scrivi di amarla, componi poesie senza leggerle. Mentre resti intrappolato nello specchio delle volontà di argilla senti i denti sporcarsi, nervoso un molare tira come fosse attaccato a una fune legata a un furgone in quinta che sfanga sulla metropoli pop antisociale.

C’è solo un momento in cui tutto questo finisce; quando vieni liberato dal carcere entri in un centro sociale e strappi il manifesto in cui è stampato il tuo volto con sotto scritto “libero”. Recluso o ricercato puoi liberarti dalle tue prigioni. Se non ti chiami Lander, tocca a te. Nelle prigioni sorrideremo agli amici distratti, non li ascolteremo, torneremo ai mille pensieri, alle mille paure, alle inibizioni che ci allontanano. Presto riprenderemo a parlarci, ma forse no, ci riavvicineremo al tempo dei balli di gruppo e degli schermi piatti, lucidi e sognanti su cui verseremo lacrime di infarti, nuvole sentimentali e rivoluzioni dolci che ci scalderanno in una coperta corta che saprà farci dormire domando la tempesta di incubi di latta.