martedì 9 aprile 2013

Mutazione apparente


    I nervi tesi, a volte, lo sono per natura. Sale l'adrenalina, i brividi lungo la schiena, sei immobile, tutto si muove frenetico, asmatico, lo stomaco come inghiottito, raggomitola fra sé, rivoltoso. Evadono le birre e il breve pasto d’occasione senza rito, consumato rapido dopo il dovere quotidiano e prima del piacere. Eppure piacere non c’è, ti rivolti nervoso con le budella, senti il vomito in gola, nel naso, puzzi dentro, provi a distrarti dalle interiora, dalle viscere ribollenti del tuo vulcano interiore. Ti senti un ancora al collo, una palla di due quintali al piede e le ossa fibrose, sfatte, di vetro. Non controlli più il corpo, la mano trema mentre cerchi di distrarti con un manifesto per strada, conti le cicche in terra, pensi alle persone con cui hai fatto sesso e quelle con cui ti sei picchiato. Conti quante volte coincidono. 
    Provi a parlare, a dire qualcosa, al tuo amico accanto, ignaro di tutto, senti la voce doppia, strozzata, senza fiato, tossisci per stare a galla ma cammini, padrone di te continui a ridere alle battute, a fare cenni con la testa di approvazione, non vuoi che cambi nulla attorno mentre la rivoluzione ti occupa. Cerchi di riafferrarti, quell’ancora potrebbe aiutarti ma non vuoi fermarti, teorizzi una bussola per non sperdere la mente. Pensi agli algoritmi che utilizzi quando lavori, alla penna sfiatata da riesumare, allo zippo da ricaricare con il gas, agli amici partiti e mai più tornati, alle compagnie aeree che hai preso e ragioni sul fatto che tuo padre non ha mai volato. 
    Ripeti in mente i libri che hai nello zaino ma ti stressano quei foglietti sparsi all'interno di ognuno, i libri sulla scrivania ti placano anche se la polvere inasprisce il palato, le riviste in bagno da ritagliare ti danno noia, le copertine dell’Internazionale appese al soffitto ti portano a spasso e scodinzoli, i libri nello scaffale di tua madre ingialliti li ami ma non li leggi. Ti fermi su qualcosa di leggero, superficiale, come quel libro che ti diede tuo zio, quel brutto thriller scritto da un ingegnere ottantenne della Nomentana, una trama di intreccio, di giornalismo investigativo immerso in un intrigo internazionale da quattro soldi. Un padre da scoprire in chissà quale continente e un direttore bastardo. Pensi al cinema, all’ultimo film che hai visto. Ma le immagini si distorcono, ti appartengono: si proiettano fasci di luce che danno la forma dell’utero materno sul bianco pavido, il tuo nascere discreto e il respiro a suon di starnuti, le sigarette e la tosse di tuo nonno ansioso, ritrovi l’affetto smezzato, la paternità precoce e l’infantilismo proprio e privato. 
    E’ tutto in subbuglio nel corpo, tutto in ordine negli altri, la mente contaminata è un groviglio disidratato, non percepisci più il tuo amico, le sue parole sono nuvole che si sparpagliano intorno a te, ti accerchiano, schiacciano le tempie e si irruvidiscono come foglie d’alloro sul torace. Respira, senza fiato, respira, a perdi fiato, respira e smorza il fiato. Smetti di respirare e poi ricomincia. Qualche colpo alla schiena per abbattere, il tuo movimento è goffo, inciampi in una cabina telefonica, componi un numero su via Tiburtina. Chiami gli artificieri e l’esercito: se arrivano i primi forse ti salverai, con i secondi sarai Dio la minaccia, dominerai il mondo per la sola presunzione di esistere. Intanto, respira e prendi fiato, il destino avrà una targa pari e sarà ammaccato.

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