venerdì 4 marzo 2011

Quiete a fette

Era la noia, fuggivo da lei notte e giorno, non sapevo la meta ma solo la fuga. Una fuga in ciak dalle foreste di clacson e semafori rotti, dalle cerniere spente e orchestre di motori. In cerca di sudamericane aranciate, di liquori atrofizzanti, di calci nelle costole e verbi andati a male. Affogavo tutto nel banale bar fatto di costellazioni precise, agli angoli gli ubriachi in pensione mentre nel pieno dell'arena i giovani cinguettanti degni della provincia anni ottanta, retrograda di trenta. Dico ciao e non mi alzo, me ne vado ma resto lì, seguo corsi di dattilografia ma spremo le fragole con la fronte per mestiere. Succhi gastrici eruttano silenti nel water, c'è anche un nido di luci e gocce. Ogni fiume di parole che esce da un'edicola, da una casa, da una scuola, sono parole perse e sprecate, usate a breve termine, presuntuose di essere portanti per l'esistenza umana, il pane serve, l'acqua per diversi motivi ma talvolta le parole possono riposarsi. Si scagliano le donnine in cerca di un gringo, di un hermanito da sfoltire, son larghe e assetate bussano alla Libia, tre volte impone il codice segreto. Baciamo le zampe alle bestie, noi in giacca con la cravatta a strozzarci, loro nelle tende d'oro. Non voltarti, non ascoltarli, le privazioni aprono un mondo e più che scappare dalla noia si cerca una curiosa quiete, a fette, in polvere, condensata in mille gas da inalare con la collettività. Voglio una città dove ad ora di cena non volino piatti dalle finestre con parole aggrappate ai paracadute, c'è sempre qualche passante a raccoglierle e pronto a riciclarle con altri malefattori. Mai spandere il verbo, mai mercificare la parola. Non pagherò più una bolletta se ho il prurito.Stupida S.I.P.

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