giovedì 8 maggio 2014

Occhio di stazza

Negli anni che la nostra salernitana città sotto l’impero del glorioso pontefice Martino quinto si reggeva, in essa di grandissimi traffici si facevano, e mercanzie infinite di continuo e di ogni narrazione vi concorrevano; ci ritrovammo coi pollici girati su di una panchina.

Vicino al chiosco a bere per compagnia, avremmo dovuto come gabbiani inseguire città sporche per avere bianchi sorrisi. Gli orpelli via, insieme all’anima del passato, ai cervelli maciullati, al cristo sconvolto col pane nelle mani del ricco avvocato dal naso bianco entusiasta della valigetta antica per cui ha speso i soldi del povero piattino domenicale.

Lì, fissi e immobili per sempre, tra dogane del porto turistico e del porto commerciale, scontavamo notti silenziose con le gru con le lucette rosse semaforo. Era una bella serata dicevano prima che ci isolassimo nella musica dell’errore, nell’avversativo lungo una generazione e breve come le nostre vite. Nel naso piccolo e con rughe nevrotiche fra qualche lentiggine ciliegia.

Spaesati e provinciali contavamo le navi entranti al porto, con una piccola barchetta sudamericana che scortava le città internazionali lussuriose e i traghetti della speranza. C’era la morte da esorcizzare, da tirare fino all’alba, con i compagni d’occasione necessari. Hai visto quant’è bella la città di notte, tiriamola a lungo finché possibile.

Ascolto Masuccio e canto di Porta Portese con te ma a letto mi aspetta la morte, giochiamo ancora un po’, freghiamoli tutti con il sorriso, nient’altro che denti. Prendiamo un caffè con sambuca per dormire. Ho bisogno di confidenza con la bara, ancora lì, difficile da issare, con l’occhio di stazza riposante, ignaro risucchia i comodi sogni a basso costo.

Dormirò poco senza te e le larve che a occhi chiusi entrano nel tuo corpo, che ti divorano mentre decifro il sogno sudato. Chiudiamo questa finestra dell’inconscio, apriamo gli occhi e troviamoci un lavoro.

Non ditelo all’anarchico ariete che rubava per mantenersi in forma. Non dire “ma”, privami d’aria, non lasciarmi avversativi, lasciami dormire nell’incubo, ancora un po’ prima che finisca questo gioco morboso e inevitabile in cui siamo sommersi. Che piacere farlo con te. Che piacere restare immobili mentre maledici chi ti dice addio.


Sorridi dal paese lassù perché qui in città si ride fino ad impazzire.


Post narrato: "E' tu sempre amerai, uomo libero, il mare! In lui ti specchi intero: nei giuochi sempre nuovi delle sue Onde  innumeri i moti tuoi ritrovi, e nei suoi aeri vortici le tue latebre amare "

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