Esclusi nel guscio collinare delle terre rese fertili dalla
lava ci si assopiva di entusiasmo. La festa che non deve finire e non finirà.
Ancora un bicchiere, brindiamo alla salute dei menestrelli, dei retorici
buffoni di periferia all’altare delle chiese mafiose, al potere delle regge dei
latitanti, al gregge che non passa mai come questo treno, come le tue parole.
- – Tu queste cose le devi scrivere – ripetevi
ossessivo fra i rami secchi e la terra fragile molle simile al ventre della
donna cannone. Dicevi di registrare tutto quello che pensavi, biopolitica,
futuro, movimento e stasi. Dicevi di non fare altro nella vita. Pensavi. E
pensavi a rilassarti in qualche modo. In qualunque modo. Intanto ridiamo ancora
un po’ così cascano gli occhiali, e quando così sarà le cose e le persone
saranno lo sfondo per aspirare con gli occhi il paesaggio. Il paesaggio al
mattino era piacevole, alternativo alla città, una possibile alterità per l’esistenza.
Un’altra possibilità. Decidemmo di sposare tutte le figlie del sultano per
farci contadini. Qualcuno si fece cane pur di restare nel giardino. Poi il dondolo prendeva
a cigolare, la carne franava dalla griglia e il cane divorava ingordo le
salsicce. Poi il cuoco doveva partire, il sabato lavora, e tu eri affamato.
- – Non pensarci. Guarda il tramonto – Era bello: il
sole iniziava a calare, le montagne succhiavano la luce fino a spegnerla per
poi addormentarsi. Il sonno non ci appartiene, perché la festa non deve finire.
Il tramonto non è finito. Eterno come noi. La musica delle chitarre randellanti
sprizzava gioia ripetuta e incontestabile, le bottiglie sgocciolavano dal
tavolo ai bicchieri, poi in terra. Il cane beveva tutto. Come noi. Poi
indossasti il giubbotto e ancora il passamontagna, lei il cappello, lo
scaldacollo, i guanti. Le ragazze dai visi gentili abbandonarono i sorrisi per
sciogliersi nella terra ghiacciata lungo i prati d’argento. La trama dei rami
era fitta e gli occhi molli.
– Non vedo nulla. Ma dov’è il tramonto? – La libertà del sole è calato conseguenza gelida su
di noi. I piatti volavano dalle mani della donna a bocca larga, pronta a
crollare al primo schiaffo. Era tempo di menarsi. Di tuffarsi. Di provarci. Di
restare nudi al freddo, a sognare una conchiglia in montagna e un pianto all’oratorio.
-
– E’ tempo di andarsene – Non c’è più lui, quello con l’auto. La
stazione lontana si fece vicina passo dopo passo, franando in discesa
raggiungemmo la meta in tempo per perdere l’ennesimo treno della nostra vita. Ghignante strascicò lungo i binari in faccia alla nostra felicità immune da conseguenze.
- – Balliamo un po’ sui binari, perché sai, la festa
non deve finire e non finirà. Siamo scout della vanità – Asciugati le lacrime di sangue, zabaglione e
miele. Lascia stare il telefono, corriamo e sbuffiamo come treni, prima o poi
ci fermeremo e sarà ancora festa, ancora un po’, il tempo della prossima stazione
e vino forte sarà.