Potevamo rotolare ancora un po’ giù dalla collina, con la fronte scoperta e boschi di pugni chiusi. Ma siamo rimasti lì, con le ruote di carta inumidite d'inchiostro, una pozzanghera di parole senza limiti sotto il cielo avorio che urlava di amarci con più Indie da scoprire e meno uragani da preparare.
Potevamo scalare ancora un po’ fino alla punta della collina, con picchetti zuccherati e scritte sul muro. Ma siamo rimasti lì, incapaci di valicare il muro della malinconia, dei dolori passati senza aspettarci nulla di buono lungo la strada. Avremmo potuto dirci favolosi, giovani, teneri ma, miserevoli siamo invecchiati privi di un pino dove sotterrarci sei piedi sotto.
Raggruppati nella folla composta da noi due, abbiamo scavato nella miseria dei fallimenti dei nostri padri, nei silenzi di madri che meditano il suicidio, e abbiamo fatto casa nella grotta della disperazione. Dopo un po’ avevamo fame, ma non avevamo la forza per cacciare cibo né per uscire e respirare con i nostri vecchi polmoni. Allora, non sapendo cosa fare, mangiai il tuo braccio e tu il mio, dicesti di non mangiare l’altro braccio perché volevi che ti abbracciassi in qualche modo. Allora, preda della nuova religione, il cannibalismo, mangiasti le mie gambe e io le tue. Mi dicesti, non mangiare l’altro braccio ti prego, e allora mangiai il tuo cuore, con gli occhi a fare da contorno. Mangiai tutto di te, anche il braccio esile, tutto tranne il collo, il pezzo per cui decisi di amarti, per il fascino del lungo collo bianco dove le vene erano autostrade da guidare fiduciosi di un approdo, le tue ossa che si apprestavano sotto la pelle erano solide strisce bianche da triturare, erano cani da investire per non morire.
Potevamo rotolare ancora un po’ giù dalla collina, con la mente scoperta e boschi di braccia tese. Ma non avevamo più teschio né braccia e allora decidemmo di morire intrecciando i nostri colli serpenti, strisciando fummo palla di carne per rotolare ancora un po' giù verso l’unico motivo per cui entrambi decidemmo di amare.
Ho comprato una sveglia piccola e quadrata per non essere
più lunatico, ma scientifico giocoliere e tenero soldato.
Quando la giro da un lato mi dice l’ora che fa per non
arrivare mai tardi da te.
Quando la giro da un altro lato parte il cronometro perché
mi hai detto di superare i miei limiti.
Quando la giro da un lato mi dice che tempo fa così indosso
gli abiti giusti senza provocarti vergogna e non avere né freddo né caldo.
Ho comprato una sveglia piccola e quadrata per non essere
più imbranato, minuto dopo minuto seguo il programma e non svolto mai per strada.
Ho comprato una sveglia piccola e quadrata che suona ogni
giorno alla stessa ora e mi dice “è tempo di alzarsi dal letto, o niente amore
e non si lavora”.
La felicità non ha tempo, va di fretta, presto va inseguita.
Ho comprato una sveglia piccola e quadrata ma da quando le
pile sono scariche, abile fermacarte, protegge dal vento i miei scritti nati a tarda ora e spettano alla fine, le pile sono scariche come il mio umore.
Benvenuta, tristezza. La tua ora giunge lenta e dolce che
quasi quasi non ti faccio più andare via.
Ho comprato una sveglia piccola e quadrata per non essere
più lunatico, ma scientifico giocoliere e tenero soldato.
Dilapidare matrimoni lungo le rive dell’oceano, intrappolare
lo spreco delle gocce dal rubinetto pubblico con una guarnizione in gomma.
Riempire taccuini nel tentativo di descrivere il vento, i venti, i sospiri e i
sussurri. Annotare la lista della spesa per sgomberare il magazzino dei
pensieri. Stanchi di perdere ancora la fermata dei missili spaziali. Viaggiare lungo
un sorriso di un’ancella, soffiare i suoi capelli come foglie, ondulanti versi
colati sulle efelidi estive. Saltellare tra fontane chiare lungo i campi fino a calpestare improvvise
città. Nuotatori dilettanti spalmati su quartieri dorsali e miserevoli strade.
Rimbambiremo le nuvole figlie dei treni, tra le mani c’è l’intelligenza,
maestra artigiana dalla luce fiacca ma prolungata e presuntuosa del dio futuro.
Giocolieri annoiati ci rallegreremo sotto le cascate metropolitane dei panni inzuppati del terzo piano sotto cui laveremo i nostri visi, i
nostri vestiti, i nostri corpi. E infine torneremo alla panchina, come ogni notte, dove
saranno nuovi i sogni di cartoni riscaldati per fare l’amore con le malattie
del posto.
Formiche, siete ovunque. Siete milioni a edificare le vostre
grandi opere nella mia stanza. Se almeno pagasse l’affitto. Sapete, i tempi non
sono dei migliori per le tasche dei contribuenti. A proposito ho trovato dei vostri parenti
anche lì; dicevano di essere i cugini maggiori, stavano lì, nelle scarpe, anche se non credo
abbiano resistito allo smog dei miei piedi.
In ogni istante, siete con me. Mangiamo insieme, o
meglio, come un divorzio clandestino, rubate gli alimenti di continuo. Sono cosciente di essere la vostra sopravvivenza.
Mi seguite
fino al bagno e spesso cadete nel lavandino, su questo volevo dirvi che non c’entro
niente, anche se vorrei.
Quando dormo marciate lungo la collina che è la pancia
mia, ma forse è pura immaginazione, insomma producete suggestioni; è come se percorresse
lunghi cammini ogni notte per fare capolinea nei sogni miei.
Quando c’era lei, però, eravate confuse, altro che una
grande squadra operaia, mie piccole guardone certo sembravate cicale mica pezzettini neri dal capo chino. Vi ho visto appostate sugli spalti della libreria. Ho visto anche
che provavate goffe a imitarci: la vostra invidia glorifica l’essere umano e il suo
sudore.
Ora che lei non c’è, siete di nuovo organizzate a passo
militare e con rigore sovietico pronte a rovinare la pace mia, in fondo, avete
ragione, è un ambiente più adatto a voi che a me.
Con lo sguardo ispeziono la stanza.
Guarda cosa hai lasciato in
giro, sciafarazzo di provincia che
non sei altro: cicche sul letto, lenzuola sporche, il cuscino giallo, libri e
giornali in terra fra croste di pizza e i cartoni del corriere, lo spazzolino
più adatto al water che ai tuoi denti, lo shampoo colato sopra il riso della
settimana scorsa.
Mi sento ospite, ma quanto è intorno alla stanza, l’ho
costruito io.
C’è di tutto, ci siete voi e i miei disordini, manca solo lei. L’ho
accompagnata lontano e una volta andata via, dopo di che mi sono diretto al supermercato
per acquistare l’insetticida. Ho scelto il più costoso, perché letale, ma
soprattutto spietato.
Lungo il ritorno, mentre percorrevo la grande collina, ero
così piccolo, vestito di nero in conflitto col sole, come voi pensavo di venire schiacciato da un momento all’altro.
Credetemi, avrei voluto uccidervi,
ma poi ho capito che non mi importa. E quindi, care amiche di un’estate, sapete
che vi dico? Avete vinto. Bandiera bianca per me. Tenetevi pure la stanza, io
non torno più.
Che poi in uno stanzino non si sta così male. Siamo io e
te, chissà quante storie avremo da raccontare. Che poi se chiudi gli occhi puoi
andare ovunque, dimenticare le storie che non ti va di raccontare. Che poi se
diventiamo scemi non succede niente di male, l’unico problema è che non possiamo fare ironia. Che poi alla musica reagiamo tutti uguale, nessuno è immune, non la
puoi ignorare.
Siamo permeabili alle vibrazioni, come ai piccoli gesti, ai
rumori. Senza rumori, dicevi che dicevi sempre al centro occupato una volta,
tanti anni fa, dal tuo papà, dicevi che senza rumori la musica non si può fare.
Dammi un altro po’ di vino dicevo sempre, poi ti lasciavo il bicchiere e
riscuotevi la cauzione alla cassa. Magari ci fosse la cauzione pure qui. E pure una cassa.
Ma torniamo a noi.
Devi sapere che dietro questo rudere, che una volta era un’industria,
c’è il mare. E’ roba artificiale, come quella che ha fregato mio figlio,
comunque, dicevo che non è che qualcuno voleva fare il mare profondo, si
trattava di un palazzinaro che aveva fame, voleva farci un centro commerciale,
prese la ruspa e di suo pugno inizio a scassare tutto, pure le falde acquifere.
Ora c’è un lago in
mezzo a questa metropoli, sento l’odore pure da qua.
Sta roba poi non è che te la racconto perché me la sono
inventata, ho una fonte chiara e affidabile, me l’ha detto una mocciosa, mi ha
parlato pure dell’assessore e dei ragazzi che si danno da fare, che poi c’è sua
madre ma non ti dico niente di lei.
Che poi tu sei giovane non è che ci credi a quello che dico, ma un giorno capirai.
Ora ti racconto questa storia, e stammi a sentire, tanto
stasera piove, senza che cerchi le scie alcoliche di tuo figlio, lui con l’ago non
fila nulla, va di scarto; senza che cerchi, dietro queste sbarre per evadere
puoi fare due cose: o chiudi gli occhi e inizi a sognare oppure stai zitto,
muto e continui ad ascoltare la storia che ti sto per raccontare.
Senza viverci mai. Ci ritroveremo ancora disfatti sulla pietra di una panca chilometrica con il respiro affannato dopo ore in attesa del sole. Il mare ci ritroverà apparecchiati sui letti bruciacchiati dai mozziconi invadenti e gli occhi invisibili tra le parti nascoste rintracciate tra le caviglie e il petto.
Faremo ancora viaggi di seta navigando sulla tua pelle tenera. Abbandoneremo per una volta le cene confetto e i diplomatici. Tra lieti saluti, vecchi fuggiremo via su di una casetta di legno incastrata tra i rami secolari di un timido centro sociale.
Senza singhiozzi da centro commerciale avremo il battito incrociato, lontano dalle paure della miniera con i nostri nonni nero carbone; dalla paura degli sguardi nervosi, come quelle notti quando la pelle si induriva con gli schiaffi della maturità.
Contenti di accettare i calci, avremmo preferito digiunare il consumo del pane quotidiano, dell’avere, del dovere avere, del dover avere le carte, del sopraffare, del sopraffare sorelle, madri, fratelli e padri.
Avremmo preso calci nello stomaco sorridendo, pronti a issarci come bandiere in sacrificio della futura umanità. Tutto per ciccare con le dita; per navigarci teneri tra una discoteca con i bagni meravigliosi e un cimitero monumentale.
Lo avremmo raccontato ai nostri figli sconosciuti come il lavoro a tempo indeterminato.
Quando si è fatta alba, stropicceremo gli occhi ancora svegli, senza tremolii per il freddo che schiarisce il cielo tra la notte e il giorno, e guarderemo i vecchi danzare a passo militare su di una vecchia signora del mare. Lungo questa percorreremo le convivenze, i matrimoni, i divorzi legali e i nuovi matrimoni clandestini. Nascosti da tutti, alla luce del giorno mite e affettuosa. Senza viverci mai.
Negli anni che la nostra salernitana città sotto l’impero
del glorioso pontefice Martino quinto si reggeva, in essa di grandissimi
traffici si facevano, e mercanzie infinite di continuo e di ogni narrazione vi concorrevano; ci
ritrovammo coi pollici girati su di una panchina.
Vicino al chiosco a bere per
compagnia, avremmo dovuto come gabbiani inseguire città sporche per avere bianchi
sorrisi. Gli orpelli via, insieme all’anima del passato, ai cervelli
maciullati, al cristo sconvolto col pane nelle mani del ricco avvocato dal naso
bianco entusiasta della valigetta antica per cui ha speso i soldi del povero piattino domenicale.
Lì, fissi e immobili per sempre, tra
dogane del porto turistico e del porto commerciale, scontavamo notti silenziose
con le gru con le lucette rosse semaforo. Era una bella serata dicevano prima che ci
isolassimo nella musica dell’errore, nell’avversativo lungo una generazione e
breve come le nostre vite. Nel naso piccolo e con rughe nevrotiche fra qualche lentiggine ciliegia.
Spaesati e provinciali contavamo
le navi entranti al porto, con una piccola barchetta sudamericana che scortava
le città internazionali lussuriose e i traghetti della speranza. C’era la morte
da esorcizzare, da tirare fino all’alba, con i compagni d’occasione necessari. Hai visto quant’è bella la città di notte,
tiriamola a lungo finché possibile.
Ascolto Masuccio e canto di Porta
Portese con te ma a letto mi aspetta la morte, giochiamo ancora un po’, freghiamoli
tutti con il sorriso, nient’altro che denti. Prendiamo un caffè con sambuca per
dormire. Ho bisogno di confidenza con la bara, ancora lì, difficile da issare,
con l’occhio di stazza riposante, ignaro risucchia i comodi sogni a basso costo.
Dormirò poco senza te e le larve
che a occhi chiusi entrano nel tuo corpo, che ti divorano mentre decifro il
sogno sudato. Chiudiamo questa finestra dell’inconscio, apriamo gli occhi e
troviamoci un lavoro.
Non ditelo all’anarchico ariete che rubava per mantenersi in forma. Non dire “ma”, privami d’aria, non
lasciarmi avversativi, lasciami dormire nell’incubo, ancora un po’ prima che
finisca questo gioco morboso e inevitabile in cui siamo sommersi. Che piacere
farlo con te. Che piacere restare immobili mentre maledici chi ti dice addio.
Sorridi dal paese lassù perché
qui in città si ride fino ad impazzire.
Post narrato: "E' tu sempre amerai, uomo libero, il mare! In lui ti specchi intero: nei giuochi sempre nuovi delle sue Onde innumeri i moti tuoi ritrovi, e nei suoi aeri vortici le tue latebre amare "
Carrozza numero 6. Destinazione Roma Termini. Una suora
occupa il tuo posto. Non sorride e annoiata raccoglie le sue cose. L’ha
riscaldato da Reggio Calabria e ora deve cederlo malvolentieri. Mi rivolge la
parola severa dotata del classico “voi” d’un tempo e regionale.
L'impianto elettrico della cabina è guasto.
Le luci sono spente. Siamo al buio.
Fortuna che non siamo soli. Sfortuna che siamo con due signore over 50; non di
età. La bionda e la mora. La bionda è una docente di ruolo di Siracusa che ha
insegnato a Modena per 3 anni, a Roma per 8. Precaria in treno per 15 anni.
Famosa "La leggenda della precaria che va su e giù per la scarpa".
Il suo
amore è di Benevento ma lavora a Taormina. Avevano amici in comune quando lei
saltuaria insegnacchiava a Napoli. Nacque un amicizia, un legame, poi l’amore,
poi 8 anni di fidanzamento e infine il matrimonio. Un matrimonio pronto a
consumarsi a distanza, senza figli e con tanta speranza. Lui, agronomo fallito
per colpa della crisi e dei municipi che non pagano ha deciso di entrare nel
vortice dell’insegnamento come lei. Insegna in una scuola paritaria, ha bisogno
dei punti carriera. Dice di lavoricchiare, nessuno l’ascolta, bimbi viziati da
portare fuori dalla scuola ma poco importa, è la strada per entrare a scuola,
per tornare da lei, per avere una famiglia completa e cristiana. La suora
annuisce simile a un benfatto stanco, fievole evidentemente dovuto. Ha sonno,
dice che il buio le porta il sonno, si scusa e dice “svegliatemi a Napoli”.
Amen.
La mora col petto libero al freddo, maglia leopardo, gambe larghe di cui una poggiata sul rilievo sotto il finestrino. Il telefono non ha mai problemi di linea. Anche in galleria. E’ nonna e non vede l’ora di tornare a Napoli. Commentando la vita
della bionda le scappa uno “scristo” ma la suora dorme e lei è priva di
pensieri.
Dicono di scendere a Napoli.
Alla prossima fermata qualcuno occuperà i posti
circostanti al numero 44 della cabina 6.
Intanto, il viaggio è per le due over 50, ormai come sorelle, tempo di organizzarsi per la dieta. Ciò che le accomuna è la scarsa volontà.
Parlano di pillole a 60 euro fatte con estratti naturali.
Possono mangiare tutto
dice la mora. Anche il fritto. Il medico è di Ponticelli.
Pensano al bendaggio
non invasivo. Bypass intestinali non invasivi. La bionda chiede il recapito. Si
dovrebbe chiamare Bussiello. Sembra affidabile stando alle premesse. Nel
frattempo la suora passeggia, si copre, prepara lo zaino e non vede l’ora di
scendere a Napoli Centrale.
La mora chiama la nipote che pesava 108 kg, adesso
partecipa ai provini.
La nipote dice che il dottore è morto.
E lei non si sente
tanto bene.
La suora e la mora con la bionda mi salutano augurando buon
lavoro. Mi avranno preso per uno che lavora, in effetti, da quando sono sul treno non ho fatto che scrivere; di loro.
La volta che ha fallito aveva gli occhi del padre.
Imbottigliato nel traffico umano poteva liberarsi solo con la rendita e qualche
piccolo servizio. Banana, cacao, pomodori e trecento ettari. Aveva un
patrimonio pubblico per scappare senza biglietto. Non voleva muoversi, né
faticare. Voleva solo rimuovere la ricchezza e distribuirla fra le sue tasche.
Tutto questo soltanto dopo averci provato posando i suoi sogni su sentieri mai
solcati. Da giovane diceva di guardare al passato per prendere la rincorsa. A
volte non è sufficiente. Il fango ti tira giù e gli pneumatici si scorticano.
Mollò il villaggio, abbandonò il suo continente.
I vaccini e le armi. La droga e le bimbe. La
rendita perfetta. Gli sfizi.
Abbandonare non significa andare via, per farlo basta sradicare
il corpo dalla terra, dimenticare di essere albero e diventare uomo occidentale
privo di radici. I soldi fra le mani sono del colore che vuole, basta girarle
dal lato del padrone.
In tarda età ci innamorammo del lavoro. I baroni erano
molto preoccupati per la cosa ma della nostra brama amorosa seppero
approfittare facendoci dimenticare la dignità regale del lavoro. Quando ci
licenziarono, i baroni trassero un sospiro di sollievo, ma per poco: perché pur
di lavorare non ci bastò essere licenziati.
Lanciammo l’anello nel lago. Dopo averlo indossato per
colmare vuoti. L’oggetto circolare inafferrabile lungo il quale abbiamo
percorso una parte della nostra vita ora è lì fra le onde verdi senza schiuma
ad ossidarsi col tempo. Schiavi immersi in fuliggine e lapilli diranno che
siamo immobili, pietra di lava. Il tempo è sfuggito in posa per una foto,
statue perfette in una ripresa di immagini statiche ripetute durante le quali
abbiamo visto fiorire barbe, ingrassare i nostri corpi, perdere i nostri cari. Le
esperienze di vita da presentare ai baroni, riga dopo riga, diventarono libri,
mattoni da portare con l’anello sotto la lingua al prossimo barone per una
serenità a tempo determinato.
Lanciammo l’anello nel lago ma non ci
innamorammo delle sue rive. Ci allontanammo verso lidi dal cielo grigio che
come un coperchio ci proteggeva mentre ci schiacciava. Sulle rive di una birra
e una lingua nuova, priva di anelli, tutta da addomesticare.
Paura di una sconosciuta come tua madre. L’inizio è ruvido,
poi quando il ghiaccio si scioglie, la fiamma è blu. Balbettante tastiera.
Ipnosi di verso fraterno, raccogli tua melma. Una scia lungo il cammino, liquido
terrestre. Procedi forzato, lungo l’arco a forma di unghia che rilascia polvere
di stelle e frammenti di forno galattico. Sali fino al tetto dell’universo,
cosmetico del cielo ridi ancora pagliaccio. Di ghiaccio si scioglie, la fiamma
è blu. Dilatato l’occhio che soffre quando s’offre da bere. Balbuziente la bocca.
Le corde procedono spedite ma lei s’apre
e saprà chiudersi. Ma poi dirimpetto si sfa. Allargasi fino alla gengiva
scostumata.
E’ da tanto che non ci vediamo. Come stai con tuo marito come il
tuo cane con te. Paura di conoscermi saltami fieno. Forse vorrei dirti che
arrivo quando è tardi. Perché ho paura di arrivare in anticipo. Forse era un'ipnosi. Ma le parole si ripetono. Come il graffiare tuo dolce. Carezzami ancora
prima che sia sera. Sai di giorno fa caldo con lo smog. E di notte con la
polvere di stelle mancano i raggi calore. Con lo smog così fa freddo. Lasciami
solo. Solo laddove è possibile studiare. Bocciato senza il frigo rumoroso, l’aspide
semiattivo, la cura della spesa, questa lista eterna. Come noi. Come le candele, le
batterie, il benessere, le tue gocce finite. Come stai bene quando le prendi.
Vediamoci più spesso.
L’orologio di casa è fermo alle ore otto e quaranta e cinquantasei secondi. Le lancette non si inseguono più, non vogliono più incrociarsi. Tre aste di diversa misura ferme e distanti, come noi che non ci vediamo da tempo perché fa rumore. Guarda il silenzio delle lancette. Fredde su sfondo bianco si adattano ai muri sporchi sembrando statua cosa bella e morta. Il rumore della lavatrice, del frigorifero, del forno, della radio impongono di aumentare il volume della suoneria al telefono. Ho una suoneria così alta che il vicino di casa vorrebbe rispondere con tutta l’irritazione che ha in corpo. Violento mi distruggerebbe senza psicofarmaci. Anche io.
Un poeta. Si affaccia alla finestra del tavolino. Rompe i dialoghi
affannati. Interrompe i lunghi respiri. Col fiato sospeso tiriamo gli occhi dal
bicchiere. Ride guitto come se sapesse le nostre misere storie, la nostra vita
priva di legami. E’ vecchio, biancoso, con i canini giallo oro e il cappello
nervoso. Chiede di sedersi. Pagliaccio pronto a divertirsi. Lei gli chiede di
improvvisare, lui dice che quella è roba da attori. Lui è poeta. Lei chiede una
poesia d'amore. Lui chiede Cosa mi dai in cambio?, le prende una sigaretta; le
sue sono nascoste nel giaccone. Mi dice Leggimi e rilascia una denuncia a suo
nome presso la caserma del quartiere. Non riceve pensione. E’ per tre quarti
invalido e danzante. Dopo 45 ricoveri, uomo classe ’52, si fa dire dall’assistente
sociale Tu non sei normale. Lo ha mandato da una psichiatra - Come era bona -
dice che gli ha dato del bipolare. Ao’ – inveisce offeso – Io so’ borderlain’.
Per la pensione si improvvisa bipolare puro. Dice di aver dichiarato guerra ai
ricchi con la poesia. Ricorda di Marisol, il suo amore ninfomane che non dice
mai di no. Ci ruba il vino e ride guitto. Stava bene anche con Merz Bau, a
Zurigo, dice di aver fatto un orgia dadaista e che c’era pure Lenin prima di
fare la rivoluzione. Una notte alle 3 e 30 del mattino si sveglia per
ispirazione, di solito si gira nel cartone. Non quella notte. Una pausa lunga
per dire Vuoi vedere che sono nato a Macerata ma le poesie mie sono meglio di
quello di Recanati? A memoria fruga nella mente, con le pause battute asilari
fra le dita delle mani. Dice che la notte se scrive fa meno freddo, però
scrivere lo frega, come quella volta che non lo portò sotto il ponte a dormire.
2 Giugno 2010. Si accende una sigaretta, ora fuori dal giaccone. Quel giorno
scrisse male dell’Italia, poi ripensò a Marisol, che diceva sempre sì, come
tutte le donne intelligenti, le uniche a cui dedicava le poesie. Per 5 euro le
dedicava a tutte. Finisce a cantare in spagnolo col profumo del mare e i sorrisi
di sabbia. Rigetta aggressivo l’infamità del prossimo. Non mi frega niente di
quegli stronzi e poi ride come ride della pensione, delle poste, delle donne.
Dobbiamo andare, la monotonia ci chiama. Con tutte le brutte parole del
dialetto mio confuso dibatte il cappello. Non vuole essere scaricato. Si alza
senza chiedere, senza dire, senza rime. E’ donna come la musa. Vate del mondo o
almeno, idolo – morboso- del quartiere. Un Poeta.
Mentre affolli il bicchiere dei rapiti, dei reclusi, dei
ricercati. Mentre affolli una discoteca con la schiuma scontentata, svagata,
pulita, in un imprevisto concordato. Mentre rischi per giungere alla gloria,
per annaffiare la penna, per trovare contatti e contanti. Mentre strusci
silenzioso fra serate altrui dove rubare i discorsi, assorbire i fardelli,
sfuggire all'ambiente. Mentre proclami la rivoluzione a testa bassa, le scrivi
di amarla, componi poesie senza leggerle. Mentre resti intrappolato nello
specchio delle volontà di argilla senti i denti sporcarsi, nervoso un molare tira
come fosse attaccato a una fune legata a un furgone in quinta che sfanga sulla
metropoli pop antisociale.
C’è solo un momento in cui tutto questo finisce; quando vieni
liberato dal carcere entri in un centro sociale e strappi il manifesto in cui è
stampato il tuo volto con sotto scritto “libero”. Recluso o ricercato puoi liberarti dalle tue prigioni. Se non ti chiami Lander, tocca a te. Nelle prigioni sorrideremo agli amici distratti, non li
ascolteremo, torneremo ai mille pensieri, alle mille paure, alle inibizioni che ci
allontanano. Presto riprenderemo a parlarci, ma forse no, ci riavvicineremo al
tempo dei balli di gruppo e degli schermi piatti, lucidi e sognanti su cui
verseremo lacrime di infarti, nuvole sentimentali e rivoluzioni dolci che ci
scalderanno in una coperta corta che saprà farci dormire domando la tempesta di
incubi di latta.