In tarda età ci innamorammo del lavoro. I baroni erano
molto preoccupati per la cosa ma della nostra brama amorosa seppero
approfittare facendoci dimenticare la dignità regale del lavoro. Quando ci
licenziarono, i baroni trassero un sospiro di sollievo, ma per poco: perché pur
di lavorare non ci bastò essere licenziati.
Lanciammo l’anello nel lago. Dopo averlo indossato per
colmare vuoti. L’oggetto circolare inafferrabile lungo il quale abbiamo
percorso una parte della nostra vita ora è lì fra le onde verdi senza schiuma
ad ossidarsi col tempo. Schiavi immersi in fuliggine e lapilli diranno che
siamo immobili, pietra di lava. Il tempo è sfuggito in posa per una foto,
statue perfette in una ripresa di immagini statiche ripetute durante le quali
abbiamo visto fiorire barbe, ingrassare i nostri corpi, perdere i nostri cari. Le
esperienze di vita da presentare ai baroni, riga dopo riga, diventarono libri,
mattoni da portare con l’anello sotto la lingua al prossimo barone per una
serenità a tempo determinato.
Lanciammo l’anello nel lago ma non ci
innamorammo delle sue rive. Ci allontanammo verso lidi dal cielo grigio che
come un coperchio ci proteggeva mentre ci schiacciava. Sulle rive di una birra
e una lingua nuova, priva di anelli, tutta da addomesticare.
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