Ogni giorno ci vedevamo in quella panchina improvvisata
fatta di cemento accanto a un portone per fumare le prime sigarette e
raccontare a voce alta tante cose per non cedere al silenzio dei binari
affollati dai treni. In cielo c’erano scie permanenti, non capivo, vedevo il
cielo tagliarsi a fette, uno spettacolo. Come quando da bambino spingevo forte
sotto la pelle sotto l’occhio per sdoppiare le cose e spostare i monti dietro
il cielo lungo la noia dell’autostrada. Un giorno decisero di costruire un hotel
molto grande proprio oltre il muro della panchina improvvisata. Ero contento di
vedere che dove c’era una volta l’infinito finalmente si presentava una realtà
prossima e tutta da costruire. Non sapevo cosa andavano costruendo, ero solo
contento della novità e poi le gru modificano il cielo e aiutavano a
riconoscere i luoghi da lontano.
Sono trascorsi dieci anni da allora e tiro
spesso dardi alcolici alla ricerca della luce adatta del mattino che mi
consenta di riversare dosi impegnate di emotività. L’Hotel, il Grand Hotel
dovrebbe somigliare a una nave, è molto grande e a un tratto è piegato a quarantacinque
gradi. E’ fatto di mattonelle nere e bianche con una striscia rossa orizzontale
sulle prime. Ci sono pure gli oblò. Le mattonelle sono consumate da un lato per
la salsedine del mare, dall’altra per la pioggia di sabbia dai monti. Da
entrambi per lo smog. Una signora dorme tra i grandi pilastri dell’albergo ha
costruito una protezione con dei cartoni targati amazon, intorno a sé molte
buste a uso valigia che rimandano ai negozi del Corso principale di lì intorno.
La saluto con dita commiserevoli insceno un ciao pietoso e che avrei dovuto
risparmiare. Mi risponde “sono pirata, sono maga, per la strada son nata”.
Proseguo dritto verso il Tabacchi, credo di essere uscito da casa per questo, o
come nei migliori film, ho detto questo a chi di certo non se lo merita.
La
città di notte è dignitosa ma le sue crepe fanno risalire la fogna al naso. La
pubblicità per acquistare una pubblicità mi dice “tutti gli occhi su di te”, “a
me gli occhi. Qui la tua pubblicità”, ”fai volare questo spazio” e intanto
volano buste, cartoni, bicchieri di plastica, cicche per aria in piccoli tornadi.
La città è pulita ma quando il vento di mare e quello di montagna si incontrano
non resta che asserragliarsi dietro i palazzoni del quartiere e rinunciare a
comprare le sigarette.
Tessera non valida per vento.
Al bar della signora Tina,
tigrata coi suoi leggins e il trucco “sabbia di montagna” c’è il marito taciturno che apre presto, come
l’edicola della vecchia che aspetta i titoloni e si dimentica del resto. Mario
apre più tardi, anche se il Bar ha il nome della figlia è da un po’ che lo
gestisce lui, ormai ci dorme dentro ma nonostante gli acciacchi il suo baffo
resiste ancora al vento. L’odore di pane passa in tra i vicoli e mi riporta a
casa, Arturo il Bianco lavora già da qualche ora.
Qui nessuno conosce il nome
delle strade se non quella in cui vive. La via del Sé.
Inciampo nel tombino prodotto
dall’industria che fa campare un po’ di gente in città. Ci cado dentro, un
vortice mi risucchia all’ingresso della fabbrica, sembra chiusa da anni ma il
tanfo che emana la rende viva. C’è una madonna ricoperta di polvere nera,
protettrice degli operai, anche loro sono ricoperti dalla polvere, come i
balconi dei palazzi intorno, come il cielo che non fa più sognare. Dicono che
la madonna non la puliscono più da anni perché si sporca sempre. Dicono che il
fumo delle ciminiere fa male ma tanto il vento passa e porta via tutto quello
che fa male.